XV

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Quella notte fu popolata dal nero.

Un nero assoluto, tiranno, despota.

Catturava ogni sorta di luce che potesse anche solo pensare di nascere.

Un nero avido, egoista. Non ammetteva altri abitanti nel suo regno. Non accettava popolo sotto il suo dominio.

Solo una totale e assoluta egemonia.

A un certo punto, però, un lampo di oro tagliò quell'abisso infinito, ferendolo come una preziosa cicatrice. Una lunga, lucente cicatrice che lo attraversava verticalmente, imbevendo l'oscurità di un sangue caldo, il sangue del sole.

Quella notte fu dominata da dei della morte e da lacrime. Tante lacrime. Continuavano a scendere sul suo viso stanco, spinte fuori da una gola secca e convulsa, partorite da occhi stremati. E ognuna delle piccole gocce scivolava lungo il suo corpo come un topolino, una creatura fatata, frutto della creazione di qualche ninfa dei fiumi. E una dopo l'altra si arrampicavano lungo un calice d'oro, incastonato di giada.

Ad ogni singulto, il prezioso recipiente sembrava colmarsi sempre di più, il livello del liquido al suo interno che cresceva a vista d'occhio, fino a raggiungere pericolosamente il bordo.

Stava per traboccare; il calmo specchio di lacrime era sul punto di riversarsi lungo le pareti di oro, di inondare le gemme e seppellirla sotto la loro forza, lei, la loro padrona. Ma non successe.

Una mano si fece avanti nell'oscurità, raggiungendo il manico e afferrandolo con fermezza. La mano sollevò il calice fino a che Diana non poté più vedere altro che la base rovinata.

Il prezioso recipiente incontrò infine delle labbra compiaciute, pronte a baciare l'oro e inghiottire il liquido salmastro.

Le labbra di suo padre.

L'uomo, con occhi scintillanti di soddisfazione ed un sorriso tronfio, inclinò il capo all'indietro. E bevve. Bevve come se non potesse esserci bevanda più inebriante al mondo. Come se fosse stato per mesi senz'acqua, come se avesse agognato quella coppa con tutto il suo essere.

E Diana non poté fare altro che fissarlo.

Quando finalmente aprì gli occhi, la sua gola era chiusa da una morsa che le rendeva difficile respirare. Scostando appena la parete di legno, poté intravedere l'alba intenta a dare il suo addio alla notte. Il cielo assomigliava ad un pezzo di stoffa immerso in una tinozza di tintura, in cui il rosa dell'orizzonte aveva preso a salire lungo la trama, divorando il buio per convertirlo in uno speranzoso indaco.

Nonostante la bellezza che le abbracciava il viso, però, non riuscì a sopprimere la pressione che le costringeva le tempie. Strofinandosi gli occhi per scacciare le tracce incrostate di lacrime, abbassò lo sguardo, accorgendosi solo allora di aver dormito indossando il prezioso vestito che il suo venditore le aveva fatto indossare. La stoffa lucida della gonna sembrava essere stata maltratta malamente a causa delle numerose pieghe che si erano formate per tutta la sua lunghezza.

Non poteva continuare a indossarlo. Se doveva lavorare manualmente, avrebbe avuto bisogno di qualcosa di più pratico.

Quando si voltò verso la porta e vi trovò davanti una pila di vestiti, ebbe un sussulto. Sembrava che qualcuno avesse udito i suoi pensieri. O, più probabilmente, avesse anticipato le sue necessità. Afferrò la prima casacca e il primo paio di brache del mucchio e, dopo aver constatato il leggero eccesso di tessuto, ripose il resto degli indumenti dentro una piccola credenza in legno scuro.

Non le ci volle molto per percepire i lievi rumori della casa, indice che c'erano già altre persone sveglie e al lavoro, perciò, senza indugio, si alzò e uscì dalla propria stanza. Dalla cucina si sollevava un lieve odore di riso, mentre il tintinnio delle stoviglie si diffondeva lungo il corridoio come un'allegra melodia. Non fu sorpresa, infatti, di trovare l'ambiente già popolato da un Seokjin affaccendato, intento ad assaggiare una misteriosa zuppa posta sul fuoco.

Il principe del calmo mattino (M.YG)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora