Prologo

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Salvador de Bahia, 15 febbraio 2003

Marìa

Non aveva mai piovuto così forte da quando ne avevo memoria. I lampi squarciavano il cielo, illuminavano quella notte in tempesta e io, appena trentenne, cercavo di prendere sonno nel mio giaciglio accanto a mio marito. I bambini dormivano da un po', il piccolo Paulo di appena sei mesi si era appisolato dopo un paio d'ore intense dovute al mal di stomaco. Era uno dei motivi per cui avevo deciso di poggiarlo al mio fianco, facendolo dormire con il calore di quella madre che non sarei mai potuta diventare. Avevo ricevuto la triste notizia della mia infertilità solo qualche anno prima quando, dopo anni di tentativi, l'arrivo di un pupo sembrava ancora essere un sogno proibito. Poi, il verdetto finale che mi portò a prendere la decisione che mi rese una delle donne più fortunate del mondo: dare casa a chi non ne possedeva una. Certo, non avrei potuto tenerli tutti con me, per questo, a malincuore, avevo deciso di adottare le pratiche di adozione per aiutare chi, come me, non avrebbe potuto essere genitore. Conoscevo bene il dolore che provocava un addio sofferto, dopo che li avevo accuditi e allevati con tanto amore. Rendendomi conto che non avrei potuto più prendere sonno, mi alzai dalle calde coperte e scesi in cucina per preparare un tè caldo. Avevo acquistato questa enorme villa abbandonata dopo aver deciso sul da farsi, mio marito aveva avuto la meravigliosa idea di ristrutturare la grande casa lasciata a sé stessa per molti anni. Sembrava di vivere in un vecchio maniero dell'Ottocento, per quanto cercassi, in ogni modo, di renderlo accogliente ai miei bambini. Riposi Paulo nella culla e coprii per bene il piccolo corpicino. Era l'unico neonato in quella casa, l'ultimo dei quattordici ragazzi che avevo preso in affidamento temporaneo. C'erano sette maschi di età non superiore ai dodici anni e sette ragazze cui la maggiore ne aveva tredici. Chi non sarebbe riuscito a trovare una famiglia avrebbe deciso, una volta raggiunta la maggiore età, di andarsene o restare. In un mese avevo solamente dato in adozione i gemelli, quelle inseparabili canaglie di otto anni e mezzo. Controllai le camere dei ragazzi, assicurandomi che stessero dormendo, poi feci lo stesso in quella delle femminucce e mi preoccupai di coprire la piccola Melody che si era scoperta a causa del sonno agitato. Mi strinsi nella vestaglia e chiusi le finestre che si erano spalancate per il forte vento, poi mi diressi in cucina per mettere su il bollitore. Fu lì che lo sentii. Era il pianto di una creatura. Piangeva disperata, a squarciagola, al punto che riuscii a sentire le corde vocali graffiarsi per la forza. Corsi verso l'ingresso e spalancai l'enorme portone, guardando davanti a me il cancello dai filamenti dorati forzato da qualcuno. Abbassai lo sguardo, portandomi una mano alla bocca. C'era una piccola bambina. A occhio e croce poteva avere pochi giorni di vita, infagottata nella sua copertina rosa e bagnata da capo a piedi. La presi con me, osservandone i lineamenti: la pelle mulatta, gli occhi socchiusi e i pugnetti vicino alla bocca rosea e carnosa. Si zittì quando la presi tra la braccia. Controllai l'interno del cesto, ma non ci trovai nulla: solitamente lasciavano biglietti, lettere... Ma quella bambina era stata abbandonata senza neanche una parola di rammarico. Non riuscivo a capire come mai, al mondo, esistevano tali bestie. La portai subito al caldo, prendendo dei vecchi vestiti delle altre bambine e cambiandola. Testai la temperatura della fronte con le mani e sospirai sollevata nel sentire che, per fortuna, non aveva preso la febbre. Una volta coperta con degli abiti asciutti, raggiunsi mio marito con passo felpato.

«Caro!» Lo destai, tenendo tra le mani la piccola creatura che aveva appena spalancato i suoi occhi chiari.

Lui si stiracchiò, osservando stralunato la bambina che muoveva le braccia freneticamente. «Oh, cielo! E lei chi è?» Chiese, lasciandosi stringere l'indice da quel forte pugnetto.

Le accarezzai il viso, scuotendo il capo. «Non lo so, l'ho trovata davanti alla nostra porta. Nessun biglietto, niente di niente! Non hanno nemmeno bussato per avvisarmi della sua presenza, l'ho sentita piangere.»

Mio marito la prese tra la braccia, osservandola con gli occhi colmi di rammarico e dolore. Era troppo piccola ed era già stata condannata a una vita senza identità. «Allora penso che dovremmo darle un nome. Che ne dici di... Rayanne?» Portò gli occhi nocciola su di me. Gli sorrisi lieta.

Rayanne significava rinascita a vita nuova. Era perfetto per quella bambina che aveva appena fatto la conoscenza di due persone che l'avrebbero amata e accudita con amore.

«Lo trovo perfetto» la presi di nuovo, guardando il suo volto appena rilassato. Si era addormentata, come erano soliti fare i bambini della sua età. La sdraiai accanto a Paulo, coprendola bene e appuntandomi mentalmente che avrei dovuto ben presto comprare una culla. La osservai ancora, accarezzandole il piccolo visino addormentato e un bagliore di emozioni mi attraversò come un impeto violento ma piacevole.

«Benvenuta tra noi, piccola Raya» dissi, prima di spegnere la luce e sorridere commossa.

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