Capitolo 16.2: Catturare l'attimo

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Sono disperato, i miei occhi non smettono di versare lacrime e il mio cuore è a pezzi

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Sono disperato, i miei occhi non smettono di versare lacrime e il mio cuore è a pezzi. Le parole di Sanem mi hanno colpito come uno schiaffo in pieno viso e, ancora una volta, ho preso coscienza del dolore che ha provato a causa mia. Sono avvilito, afflitto e arrabbiato con me stesso e questa sensazione so che rimarrà con me per tutta la vita. Ho distrutto la persona che amo di più al mondo, la persona più importante per me e ora, anche se sono qui per lei, so che non è felice. Non mi vuole qui e non posso imporle la mia presenza. Non riuscirò più a guardarla negli occhi senza rivederla su quel molo, da sola, a mandar giù quella pillola necessaria per dimenticarsi di me. Mi siedo sul molo per guadare l'orizzonte e cercare un po' di pace, ma la mia testa è confusa e piena di pensieri. Allora, chiudo gli occhi e respiro profondamente ma di fronte a me, c'è solo il viso di Sanem, rigato dalle lacrime. Nella mia testa e nelle mie orecchie risuonano le sue parole e nel mio petto, il cuore si infrange in mille pezzi. Quanto male le hai fatto, Can....

Mi sento oppresso dai sensi di colpa. Come ho potuto lasciare che accadesse una cosa del genere? Come ho potuto permettere che il suo cuore soffrisse così? Ho permesso ai suoi occhi di versare lacrime, di spegnersi. Ho permesso al suo sorriso di trasformarsi in una smorfia di dolore. Io, Can Divit, ho permesso che il suo amore per me si trasformasse in odio. Guardo ancora il mare, cercando di distrarmi ma gli occhi di Sanem, così pieni di rabbia e dolore, sono ancora impressi nella mia mente e questa immagine, continua a torturarmi. Sono seduto sul molo, immobile. Fermo in un immutato silenzio, infranto solo dal suono delle onde sottostanti. Non so per quanto tempo resto in quella posizione, ma torno alla realtà solo quando vedo il sole spuntare. Ho passato una notte insonne, l'ennesima della mia vita. Da quando lei non è più mia, dormire è una tortura ed impiego tutte le mie forze per rimanere sveglio. Prima di alzarmi, do un'ultima occhiata al mare, mi sfrego il viso con la mano e dopo aver spostato i capelli dal volto, mi alzo per tornare al capanno. Attraverso la tenuta a testa bassa, nella speranza di non incontrare nessuno e una volta al capanno, cambio i miei vestiti così intrisi di dolore e tristezza. Mi guardo allo specchio: ciò che vedo, è un uomo che non riconosco più, che non mi piace. Mi allontano da quell'immagine riflessa e sapendo ciò che mi aspetta questa mattina, prendo la macchina fotografica per controllare che ancora funzioni come una volta. Mi siedo sul letto e quando le mie dita l'afferrano, sento una scossa lungo il braccio. Durante l'anno trascorso non l'ho mai usata; ci ho provato solamente una volta e ho sentito cosi male al cuore, da promettere a me stesso che non avrei mai più fotografato niente e nessuno perché, nonostante abbia visitato i posti più belli del pianeta, Sanem e i suoi occhi sono e saranno sempre, il miglior paesaggio da fotografare. Più delle montagne che tanto ho amato, prima di incontrarla.

Continuo ad osservare la macchina fotografica tra le mie mani e, dopo un aver preso un respiro profondo, inizio a pulirla. Sarà una buona idea?  Mi domando, mentre continuo a maneggiare quell'oggetto così familiare e al tempo stesso sconosciuto. Prima di rimettere tutto in ordine nella custodia, controllo nelle tasche e mi ritrovo tra le mani un Hard Disk. Quando fotografavo in giro per il mondo, lo tenevo sempre con me per avere tutte le foto scattate a portata di mano. Lo guardo per qualche secondo e lo rimetto a posto nella tasca, sistemando infine la macchina fotografica. I miei occhi non si staccano da quella borsa e nella mia testa, continuo a ripetermi che forse fotografare Sanem non sia una buona idea. Devo parlare con mio padre, devo dirgli che non posso fare le foto. Prendo la giacca insieme alla macchina fotografica e mi avvio per andare da mio padre. Attraverso il giardino e vedo subito papà. Sorrido avvicinandomi a lui. «Ciao papà, ti posso parlare un secondo?»  Dico, mentre gli stringo la mano con il nostro solito saluto da marinai. «Figliolo, adesso no, dobbiamo occuparci delle foto» Mi risponde, dopo avermi osservato per qualche secondo. Le foto, dobbiamo occuparci delle foto dice.. Anche se proprio non me la sento, papà! Non ho il coraggio di dire niente, perché l'idea del servizio fotografico lo rende entusiasta e non me la sento di dargli un dispiacere. Fingi Can, d'altronde ti riesce bene.

GOCCE D'AMBRA (SOSPESA)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora