Capitolo 35

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Da quando era entrato nei lupi, Colin aveva la costante sensazione di vivere due vite. C'era il ragazzo che andava a scuola, che aveva degli amici, che era innamorato di una stronza; e c'era il ragazzo con qualche bustina sempre in tasca, pronto a venderla a chiunque gliela chiedesse. C'era quello impegnato nello studio e nell'aiutare in casa, e quello che passava i pomeriggi nel covo sotto il Mirror o nei vicoli di The Shadow come comandava Jim. L'angoscia che il padre scoprisse quella doppia vita era costante, insieme al rimorso verso i nonni: che avrebbero pensato di lui? Quanto li avrebbe delusi? Per la prima volta, in quei giorni, si era ritrovato a ringraziare il cielo: erano morti, non lo avrebbero mai saputo, non avrebbe mai dovuto affrontare quegli occhi cupi e amareggiati, pieni di delusione, che tanto bene riusciva a figurarsi in testa.

Arrivò al covo che era ormai quasi buio, contento di aver venduto tutta la sua parte, con la speranza che Jim lo avrebbe liberato, almeno per quella sera. Andò verso il boss senza dire una parola, nemmeno un accenno di saluto. Gli porse istintivamente i soldi ben legati tra loro e Nelson lo guardò tronfio, sempre più fiero di quel ragazzo che, dopo la titubanza iniziale, aveva ingranato bene. Era talmente soddisfatto che lasciò cadere anche le poche lamentele scaturite dall'assenza di Colin il giorno precedente.

«Programmi per la serata?» chiese l'uomo, contando attentamente le banconote che poi sarebbero passate nelle mani di Lincoln, contabile della banda. Colin non tradì alcuna emozione, tenendo alto lo sguardo e quasi sfidando Jim, che ricambiò compiaciuto.

«Vorrei cenare con mio padre» ammise. L'uomo, seduto sulla solita poltrona che ormai aveva preso la forma di quel sedere piatto e abbondante, sogghignò tirando profondamente e circondandosi del fumo scaturito dal sigaro cubano.

«Come sei sentimentale», lo prese in giro, «ma va bene, puoi andare. Prendi le dosi da vendere domani e datti da fare a scuola. Di gente che vende per strada ne ho parecchia, devi arrivare ai figli di papà che girano nei corridoi del tuo liceo» aggiunse. Colin annuì, senza degnarlo di alcuna risposta. Faticò a sedare l'ira che sentiva montare. Odiava quell'uomo, la strafottenza con cui si rivolgeva a chiunque, la totale mancanza di interesse verso ragazzini a cui avrebbe rovinato la vita pur di guadagnarci. Non avrebbe venduto nulla a scuola. Non avrebbe contribuito a quel massacro, non avrebbe stroncato sul nascere la vita di quelli che erano ancora dei bambini.

Capendo di aver finito, si allontanò da Jim e da tutti gli scagnozzi che aveva intorno, salutandoli appena con un cenno del capo. Iniziava a sentirsi soffocato e aveva bisogno di uscire da quel luogo buio, caratterizzato da aria viziata e puzza di alcol. Fece le scale a due a due, sperando di scaricare un po' di tensione che, ne era certo, in ascensore si sarebbe solo accumulata. Salutò senza troppa attenzione i ragazzi dietro il bancone che sistemavano attenti gli ultimi ordini arrivati prima dell'apertura e uscì. Il clima era sempre più pungente, e a lui non dispiaceva. Era abituato al gelo di New York e quel freddo di ottobre non lo spaventava. Si appoggiò con la schiena contro il muro del locale, abbassando il capo afflitto. Estrasse lo zippo dalla tasca destra dei jeans, rigirandoselo un po' tra le mani. Pensò alla madre, all'egoismo, all'indifferenza. Pensò ai figli che, un giorno, avrebbe voluto avere. Pensò alla possibilità di somigliare troppo a quella madre sempre assente. Pensò che, forse, mettere fine a quei geni sarebbe stato meglio. Chi lo avrebbe voluto come padre? Ricordò improvvisamente quando Mina gli disse che il suo destino era segnato, che non aveva senso impegnarsi a scuola, che non aveva speranze. Quel ricordo lo colpì come un pugno dritto nello stomaco, togliendogli il respiro per un attimo. Era quella la vera Mina, quella ragazza sputasentenze. E, forse, quella Mina aveva ragione. Aveva iniziato a scrivere quel futuro nel momento esatto in cui aveva deciso di abbassare la testa e assecondare Jim Nelson e, ormai, tornare indietro sembrava impossibile.

Una luce improvvisa lo investì: erano i fari di un'auto sempre più vicina. Guardò meglio, accorgendosi di Lip alla guida. Margot sempre accanto a lui come una cozza. Colin detestava Margot. Non che la conoscesse a fondo, ma le prime impressioni di quei giorni erano state fatali. Non era così diversa dalla Mina conosciuta a scuola: viziata, egocentrica, narcisista, arrivista e attaccata a Lip in modo quasi patologico.

Vide l'amico parcheggiare davanti al Mirror distrattamente, scendendo in fretta dall'auto. Non lo aveva nemmeno notato, tanto era impegnato in una discussione con Margot.

«Devi starne fuori, capito? Smettila con queste battutine del cazzo che non fanno ridere nessuno» la rimproverò rabbioso. La ragazza non riuscì a trattenere una risata che lo fece infuriare ancor di più, se possibile.

«A me fanno ridere» si giustificò, fingendo ingenuità. Lip la fulminò, accorgendosi finalmente di Colin. Si avvicinò a lui, ignorandola completamente finché la ragazza non decise di entrare. Colin nemmeno la salutò, voleva solo che sparisse.

«Che succede?» chiese, rimasti soli. Lip sospirò esausto, portandosi le mani alle tempie e abbassandosi leggermente col busto in avanti.

«Hai visto Micol oggi?» rispose con una domanda, ignorando completamente quella di Colin. L'amico non se la prese. Avvertiva l'agitazione di Lip, ogni giorno più evidente e difficile da tenere a bada. Annuì appena, sempre incerto su come parlarne. La situazione era chiara, eppure la gelosia non scompariva mai.

«Solo a pranzo» spiegò. «Ho avuto giornate del cazzo»

«Per questo ieri non ti sei presentato? Papà era nero» lo avvertì. Colin lo sapeva, aveva già visto Jim, che si era calmato solo quando il ragazzo gli aveva mostrato i soldi, avvisandolo di aver venduto tutto.

«È successa una cosa con Mina» aggiunse, scendendo poi nel dettaglio e raccontando a Lip gli ultimi due giorni. Il ragazzo non rimase troppo sorpreso. Conosceva poco Mina, nonostante la vedesse spesso in giro. Non aveva mai parlato con la ragazza, troppo altolocata per rivolgergli la parola, e tutto ciò che sapeva arrivava dalla versione di Micol.

«Micol come sta?» chiese Lip preoccupato, facendo spuntare sul viso di Colin un sorriso dolce.

«Non mi ha detto molto, in realtà. Credo abbia capito il mio momento» rispose, facendolo annuire. Colin apprezzò lo sforzo di Lip di frenare la gelosia. Pensò che, nei panni dell'amico, forse non ce l'avrebbe fatta e decise di confortarlo.

«Sai che sei sempre nei suoi pensieri, vero?» domandò retorico. Una risatina sarcastica fu la prima risposta di Lip.

«Non mi risponde più. Sono giorni che provo a contattarla, ma niente. Per questo litigavo con Margot, per le prese in giro»

«Margot è una stronza invidiosa, non ascoltarla. Ascolta me, piuttosto. La vedo, sempre: quando legge il tuo nome sul suo cellulare, o sul mio; quando qualcuno ti nomina; quando ti vede. Il non voler stare con te non implica che non ti ami, anzi»

«Perché non riuscite a passarci sopra? Insomma, Micol mi conosce. Perché si ferma all'apparenza? O al mio lavoro? E tu in queste settimane hai conosciuto Mina. Ha fatto una cazzata, è vero, ma tu non l'hai nemmeno fatta parlare. Perché non darle il beneficio del dubbio? Dici di aver scoperto un'altra Mina, nell'ultimo periodo, eppure al primo intoppo hai subito mollato. Non si vivono così le relazioni. Non è così che si ama!» Procedendo, il tono di Lip si era indurito sempre più, arrivando quasi a urlare. Lo riguardava così da vicino, quell'argomento, che Colin non ebbe il coraggio di controbattere. Che avrebbe potuto dire? Forse l'amico aveva ragione, forse era semplicemente un codardo terrorizzato dall'idea di amare e di soffrire. E forse Micol era come lui, per questo andavano tanto d'accordo. Eppure capiva le perplessità dell'amica, la decisione di tirarsi indietro, la paura costante per la vita di Lip come, era certo, Micol capiva bene la scelta di Colin di tirarsi indietro davanti al comportamento di Mina con la Burke. Non pretendeva, comunque, che Lip lo comprendesse o lo supportasse. Si voltò verso di lui, sorridendo appena e sollevando le spalle, prima di salutarlo e sparire nell'oscurità del parcheggio del Mirror, ancora non illuminato dai pochi lampioni che Jim faceva accendere solo quando il locale iniziava a riempirsi.

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