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Era persino peggio di quanto avessi immaginato: il mio viso era pallido, le guance ancora più scavate del solito facevano sporgere le ossa degli zigomi in modo orrendo. Per una frazione di secondo faticai a riconoscermi in quell'immagine spettrale allo specchio. I miei occhi erano vuoti e segnati da occhiaie nere e profonde, all'improvviso si riempirono di lacrime: unico segno palese che in loro ci fosse ancora un po' di vita.

«Guardati», ribadì Luca, con tono improvvisamente dolce.

Sciolse la presa dalla mia vita, continuando a tenermi per il polso, ma con molta più delicatezza.

Sollevò con la mano libera la manica della mia maglia troppo larga, scoprendo il mio braccio esile.

La sua mano magra, sul mio polso sottile, sembrava enorme.

Con la mano che mi aveva lasciato libera mi riabbassai la manica per coprirmi.

Sapevo cosa intendeva senza che infierisse così, ma lui proseguì.

Senza mollare la presa dal mio povero polso fece scendere l'altra mano fin sotto la vita. Afferrò il bordo della maglia e me la sollevò fin sotto al seno, scoprendomi il torace. Le costole si potevano contare, una ad una, fino all'ultima. Ad ogni mio respiro, sempre più affannoso, la cassa toracica si alzava facendole sporgere ancora di più.

Ma la cosa davvero triste, in tutto quello scenario desolato, era il modo in cui lui mi guardava: non come un uomo guarda una donna, ma come si guarda un fenomeno da baraccone. I suoi occhi erano pieni di compassione, di pietà, di pena.

Qualunque persona mi avesse guardata in quel modo mi avrebbe ferita a morte e il dolore era amplificato perché era proprio lui a farlo.

Con uno strattone mi sottrassi alla sua presa, ormai quasi impercettibile, liberando il polso e mi ricoprii alla svelta, cercando inutilmente di trattenere le lacrime.

«Ti prego Giulia, scusami», sussurrò abbracciandomi, mentre le mie lacrime sgorgavano come un fiume in piena, «non volevo reagire così, volevo cercare di parlarti con calma, ma quando ti ho vista questa sera mi si è spezzato il cuore. Non posso permetterti di continuare a farti del male, tu sei troppo importante per me, non ti lascerò andare via, non posso permettermi di perderti».

Mentre il mio corpo era scosso da profondi singhiozzi, lui mi accarezzava i capelli. Ogni tanto mi allontanava di qualche centimetro per potermi baciare la fronte.

Non so per quanto tempo mi cullò così, so solo che dopo un po' i singhiozzi si calmarono. Mi asciugai il viso con una manica, feci un sospiro e mi allontanai da lui per sciogliere l'abbraccio e guardarlo negli occhi.

Aveva un'espressione triste, si vedeva che si sentiva in colpa per avermi fatta piangere. Io invece, stranamente, ero sollevata. Ora sapevo che lui conosceva i miei problemi e non avevo nemmeno avuto bisogno di parlargliene. Sentivo che lui poteva essere l'unica persona al mondo in grado di aiutarmi, perché era l'unica persona per cui avrei fatto qualunque cosa.

Le sue parole mi avevano finalmente mostrato la realtà dalla giusta prospettiva.

Quando Anna mi aveva detto delle voci che giravano sul conto di Luca, mi ero arrabbiata con lui, mi ero preoccupata perché non volevo perderlo. Neppure per un secondo avevo pensato al fatto che fossi io stessa, ogni giorno, ad allontanarmi da lui. L'avrei perso presto e non sarebbe stata colpa sua, ma mia.

Più di una volta avevo preso la decisione di tornare ad essere normale, di ricominciare a mangiare, a vivere, ma mai prima di allora avevo avuto quella determinazione. Mai, fino ad allora, avevo rischiato di perdere tanto: rischiavo di perdere lui, perciò rischiavo di perdere tutto.

Lo stesso peso dell'amoreDove le storie prendono vita. Scoprilo ora