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"No, hai ragione, non sono affari miei, non lo sono mai stati!" sbottai.

Vera rimase zitta, teneva la testa bassa.

La cosa mi fece arrabbiare, parecchio arrabbiare.

Scesi in fretta i gradini verso di lei.

"E proprio perché non sono affari miei vorrei capire" scesi ancora per poterla guardare negli occhi "perché, perché diavolo dovevamo parlare di che cosa dovevamo parlare, perché mi hai chiesto di parlare?"

Silenzio.

Alzò lo sguardo.

Era mortificata.

"Scusa..." mormorò.

I miei occhi erano fissi sui suoi. Mi sembrava quasi di vederci riflesso un baratro di dolore.

Avevo compassione di lei.

Ma potevo lasciargliela passare, così, senza risposte?

Aprì la bocca, come per dire qualcosa, le labbra che si muovevano senza far uscire parole.

"Vera..."

Iniziai a piangere.

Sentii le lacrime scivolarmi sulle guance.

Ero confuso, disorientato, cosa stava succedendo nella mia testa, come mi stava prendendo? Perché vederla così mi faceva stare così male? Cos'era quella fitta in fondo allo stomaco che stringeva e faceva così male, che mi faceva sentire il bisogno di vomitare e accasciarmi a terra?

Cos'era...

La mano di Vera si poggiò sulla mia guancia.

"Mi dispiace, mi dispiace tanto."

"Perché?" chiesi, scuotendo lentamente la testa "Perché?".

Era lì, davanti a me. Quella ragazza che era stata una sconosciuta, ora era tutto ciò che vedevo.

"Perché..." si bloccò, respirava con la bocca "...perché mi hai dato un posto dove sentirmi accolta."

Sorrisi, con la guancie ancora bagnate.

"Al bar?" risi sconsolato, ancora scosso, le labbra che mi tremavano.

Vera annuì e mi sorrise.

"E bevo perché..." si fermò.

Il suo sguardo divenne offuscato e si perse nel vuoto.

La sua mano, ancora appoggiata a me, sembrò morire e lei parve presa da vertigini.

"Vera..!"

Non riuscivo più a vederla così.

Fui preso come da un istinto primitivo.

In un secondo, che non bastò a fermarmi, non riuscii a pensare nulla in contrario. Era giusto. Ero più in alto.

La stavo abbracciando.

"Va tutto bene."

La sentii scuotere la testa, iniziare a singhiozzare.

Si staccò da me, prendendomi le braccia tra le mani, strinse forte.

"Non riesco, tutto è così troppo, troppo e io... io..." continuava a guardarmi e a fare no con la testa e a guardarmi, con quei suoi occhi, pieni di lacrime "..io non ce la faccio."

"Andrà tutto bene..." sussurravo "Andrà tutto bene", ma non sapevo se sarebbe andato tutto bene, non sapevo nulla.

Vera pianse ancora, ci sedemmo e restammo lì, vicini, in silenzio.

Tenevo le sue mani tra le mie e sentivo il suo respiro che pian piano si faceva più rilassato, mentre teneva la testa appoggiata alla mia spalla.

Mi sentivo vuoto, non avevo più nulla da dire, nulla da fare.

Allo stesso tempo, tuttavia, non ero solo, perché lei era lì con me.

Non riuscivo a pensare a nulla di preciso, mentre la sua silenziosa compagnia mi scaldava, in qualche maniera, il cuore.

Non so per quanto tempo restammo lì, ma abbastanza per farla ritornare abbastanza lucida.

In quel limbo fuori dal mondo, fu un momento, notai che il sole iniziava a tramontare.

Inizia ad accarezzare le sue dita pian piano, e lei ricambiò.

Ci sfioravamo lentamente, senza guardarci.

"Sai..." mormorai "...domani vado da mia madre." non che le potesse importare, ma mi ricordai di aver pensato di presentarle "Si sta facendo tardi per te?" domandai.

Lei si staccò lentamente e mi sembrò quasi che, nel farlo, si portasse via anche un pezzo di me.

"Non vorrei andare, ma dovrei." il suo tono era piatto e triste.

Fu come una pugnalata nel petto.

"Non vorresti?" avevo paura di una risposta.

"Oggi... è stato brutto vero?" sospirò "Ma... in un certo senso..." le sue dita si mossero lievemente.

"Scusami Mattia. Sono un disastro." fece per ritrarre la mano, ma la bloccai.

"Ti prego, non scusarti. Però tu..." cosa stavo per dire? Avrei dovuto dirlo? Forse dovevo tacere, ma in fin dei conti non potevo lasciare la frase così, a metà! E poi... e poi lei era lì.

"...tu non te ne andare."

Si girò di scatto.

"Mattia..."

La supplicai in silenzio.

"...io non so. Non sono... non sono sicura di nulla. E avrò ripensamenti, mi pentirò e tenterò di scappare, perché ho paura." capii quanta fatica le stava costando spiegarmi quelle cose. "Non riesco a gestirla e... per questo..." si chiuse a testa china.

Mi avvicinai piano al suo viso e le spostai una ciocca di capelli dietro all'orecchio.

"Ehi..." le sorrisi, sperando con tutto me stesse che quel piccolo gesto potesse rincuorarla "...ho capito, tranquilla."

"Grazie." chiuse gli occhi, come sollevata da un pesante fardello.

Era così fragile ma così bella.

Mi avvicinai al suo viso e le posai con delicatezza un bacio sulla guancia.

Lei mi guardò e fu in quel momento che sentii di aver capito davvero cosa significava prendersi cura di qualcuno.

"Tra un po' te la senti di andare a casa?" tastai il terreno.

Sorrise e annuì.

Iniziammo ad alzarci con calma, come a voler ritardare il nostro saluto e ci incamminammo.

Mano nella mano, quando al cancello dovetti salutarla, fu doloroso.

Non volevo lasciarla andare, non volevo separarmi da lei.

Non sapevo cos'era tutto quello che stavo provando, i sentimenti del pomeriggio ancora vorticavano nel mio ventre.

Non capivo perché, ma lasciarla andare fu come sentirsi strappare la pelle.

Le accarezzai la guancia per alcuni secondi, prima di trovare il coraggio di dirci "ciao".

Prima di chiudere la porta mi guardò e, dopo averla chiusa, fui di nuovo solo.

Ma stavolta ero più solo di quanto non lo fossi mai stato: mi sentivo vuoto, vulnerabile.

Mai avrei pensato che era così che ci si sentiva, ad essere innamorati.

Parlami ancora dei fiori d'arancioDove le storie prendono vita. Scoprilo ora