il bambino e la lira

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Non aveva mai visto una cosa del genere.
Sembrava un arpa, ma era decisamente più piccola. Era d'oro, o almeno così sembrava.
Tutto era cominciato circa dieci minuti prima.
Era stato mandato dalla madre a prendere delle vecchie riviste. Luglio 1991, Gennaio 1993. Lei era sempre in prima pagina. E non si era certo fatta scrupoli a farlo sapere ai nuovi vicini.
Erano tutti giù, in salotto, e stavano aspettando lui, sorseggiando una bibita fresca che li aiutava a combattere il caldo di Agosto.
Ma a un bambino di otto anni non importavano le riviste, i gossip o le altre "cose da grandi". A lui importava giocare, rotolarsi nel fango e scoprire cose nuove.
Per questo, potersi allontanare dagli adulti era stata una liberazione.
Era salito di corsa in soffitta, con le assi di legno del pavimento che scricchiolavano sotto ai suoi piedi.
Si era guardato intorno, non riusciva a trovare quello che cercava.
Aveva aperto tutti gli scatoloni, senza trovare nessuna rivista. Tutti, tranne quello con la scritta "da papà, per Tommaso". Glielo aveva lasciato il padre prima di andarsene, assieme ad una lettera, in cui veniva chiesto di aprire la scatola una volta raggiunti i sedici anni. Aveva imparato a contare fino a cento, e aveva capito che mancava ancora molto tempo prima di poter aprire lo scatolone.
Fino ad allora, non aveva mai potuto farlo, sempre sorvegliato dalla madre, che si assicurava di tenerlo lontano dalla soffitta.
Ma evidentemente la madre si era scordata di questa cosa, troppo occupata ad intrattenere i signori al piano di sotto.
Così, preso dalla curiosità, aprì la scatola. Di certo non si aspettava di trovare dentro quello che aveva effettivamente trovato.
Fogli, tantissimi fogli scritti in modo strano, come se le lettere fossero al contrario. Erano fogli ingialliti e sbeccati agli angoli; sembravano le "pergamene egizie". Sapeva cosa fossero perché le aveva studiate a scuola la settimana prima, e aveva speso un pomeriggio intero per imparare quella parola.
Uno specchio ricamato. Ci si specchiò, guardandosi il viso, i lisci capelli marroni e le guance rosee e paffute. Gli occhi color giada, vispi e attenti come quelli di una volpe. Non capiva il significato di quello specchio. Forse papà pensava che nella nuova casa non li avessero? Di certo non poteva chiederglielo.
Fu allora che la vide. Quello strumento strano.
Pensò che fosse uno strumento musicale, anche se durante l'ora di musica non lo aveva mai visto.
Lo prese in mano, sfiorandolo con le dita. E lì, tutto cambiò.
Sentì l'aria mutare. Qualcosa soffiò dentro al suo collo, provocandogli un brivido lungo la schiena.
Si girò di scatto, impaurito, ma non vide niente. La luce stava scomparendo, il sole tramontando.
D'improvviso, sentì una voce.
<<non toccare ciò che non ti appartiene.>>
Era una voce fredda e dura, che sembrava arrabbiata. La cosa più strana era che, oltre a lui, non c'era nessuno in soffitta. Sembrava che la voce provenisse dai muri.
Si allontanò di qualche passo dalla scatola, gattonando verso il centro della soffitta. Teneva stretto a sé lo strumento, come se potesse usarlo come scudo. Improbabile, vista la grandezza di esso.
<<non mi hai sentito, forse? Ti ho detto di non toccarla.>>
E, di fronte a lui, spuntò una luce. Sembravano tanti brillantini dorati, che presero velocemente la forma di un umano. Era un ragazzo, con la pelle così tanto scura che sembrava che in tutta la sua vita fosse stato solo a contatto con il Sole. Pelle che faceva un forte contrasto con i suoi capelli, biondi come paglia e pieni di boccoli, e con gli occhi, azzurri come il cielo.
Era tra i più alti della classe, ma lo sconosciuto lo superava di almeno mezzo metro.
Il bambino si guardò le mani, che stringevano forte lo strumento. Allentò la presa, posandolo a terra.
<<mi scusi, signore, non sapevo fosse suo quel coso.>>
Gli occhi del ragazzo sembravano scintillare dalla rabbia.
<<"quel coso"? Beh, mio caro, "quel coso" è una lira. Ed è mia, come tutti gli strumenti del mondo. Adesso alzati, mortale.>>
Si alzò, pensando alla parola mortale. Non aveva mai sentito quella parola, ma poté intuirne facilmente il significato. Ma se l'aveva chiamato così, vuol dire che lui non lo era? Come faceva una persona a non morire? Aveva scoperto la morte solo qualche mese prima, con la venuta a mancare di sua nonna.
<<No, io non posso morire. Io sono un dio.>>
Gli disse il ragazzo, come se gli leggesse nel pensiero.
<<Un dio? Come quelli degli antichi egizi?>>
Gli chiese, mentre le sue emozioni passavano da paura a curiosità. Gli piacevano gli egizi, li aveva studiati volentieri.
<<Sì, come quelli degli egizi. Ma io non sono egiziano. Sono greco. Sono Apollo, dio del Sole, della medicina, della profezia e della musica. E voglio sapere perché avevi in mano un mio strumento sacro, visto che non ho mai sentito il mio nome uscire alla tua bocca. Mi hai mai venerato? Hai mai compiuto un sacrificio in mio onore? Allora perché tocchi le cose importanti senza saperne la loro storia? Rispondi, mortale.>>
Non sapeva cosa dire, non era nemmeno arrivato ai greci con il programma di storia. Così, fece l'unica cosa che gli sembrava sensata: scusarsi.
<<signor Apollo, io non sapevo cosa fosse quella cosa. Con la maestra non siamo ancora arrivati ai greci. Se vuole, quando ci arriveremo potrò dire ai mie compagni che ti ho conosciuto. E poi, come si fanno i sacrifici?>>
Apollo stava per parlare, quando una voce lo interruppe. Era la mamma di Tommaso, che lo chiamava e gli chiedeva di scendere.
Il dio si girò verso il bambino, che aspettava una sua risposta.
<<Adesso vado. Ho il presentimento che ci rincontreremo molto presto.>>
E sparì così come era arrivato, con un turbine di luce dorata.

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