Strangers When We Meet

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Halfway sadness
Dazzled by the new

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Savino mise la testa fuori dal portone e strizzò gli occhi davanti al sole di marzo: erano tre giorni che non usciva di casa, ma gli sembravano molti di più. La percezione del tempo giocava strani scherzi, in quel bizzarro e sorprendente anno duemilaventi.

Nel cortiletto non c'era nessuno. Le foglie degli alberi mormoravano nella brezza pomeridiana. Sottili odori di terra, foglie e fiori gli solleticarono le narici.

Era proprio una di quelle giornate nelle quali è bello star fuori e bighellonare, senza doversi coprire con maglioni, sciarpe e cappelli. Era giunta, ancora una volta, la stagione della giacca jeans, prima che il caldo imponesse di rinunciare anche a quella e darsi alle maniche corte.

Insomma, era uno squisito pomeriggio di fine marzo, perfetto in ogni dettaglio, tranne per il fatto che c'era una pandemia globale in corso.

Savino non si era ancora abituato al vago straniamento che lo prendeva ogni volta che metteva piede fuori di casa; una cosa che, comunque, aveva fatto di rado nelle precedenti due settimane, e quasi sempre per restare nei cortili e nei giardinetti di Villa Riccio. 

Del resto la parola d'ordine, il motto, l'hashtag era quello: io resto a casa, e Savino aveva dato retta alle sagge istruzioni del presidente Conte ed era restato a casa.

Essere segregato fra le mura domestiche era fastidioso, certo, e dopo quindici giorni iniziava a diventare insopportabile, ma fuori dalla porta c'era il virus. Invisibile, microscopico e letale. Anche in mezzo a un cortile vuoto, Savino non riusciva a scrollarsi di dosso la consapevolezza che il minuscolo assassino era sempre presente; poteva bastare una distrazione a condannare a morte, se non sé stesso (la mortalità fra i quindicenni come lui era quasi inesistente, lo sapeva), qualunque persona più vulnerabile entrasse in contatto con lui.

Tre mesi fa era Natale, ruminò Savino, incamminandosi lungo il vialetto, e tutti stavamo appiccicati come francobolli, a darci baci e abbracci. 

Era incredibile che la vita potesse cambiare così tanto in un lasso di tempo così breve; cambiare al punto che, a volte, non riusciva a immaginare che sarebbe tornata a ricomporsi nella sua forma originaria.

Savino esalò un lungo sospiro di soddisfazione nel sentire i muscoli delle gambe che si sgranchivano e le pupille che si rilassavano dopo otto ore di schermi ininterrotti, fra smartphone e didattica a distanza ed episodio di Black Mirror visto di straforo. Si molleggiò sulle suole e si guardò intorno alla ricerca di altri evasi dal carcere casalingo: dal cancello che si apriva su Via Donatello, vide arrivare una pensionata con il carrellino della spesa e una maschera chirurgica sul viso. Un'altra signora sulla sessantina uscì in quel momento dal portone di casa, probabilmente per andare a far compere a sua volta. Savino vide le due donne salutarsi con la mano e poi spostarsi ai due lati del viale. Certe di star così rispettando il distanziamento sociale, le signore scambiarono qualche parola sommessa a due metri e mezzo di distanza.

Perché tutti parlano a bassa voce quando sono in giro? pensò Savino. C'era come una tacita intesa di non disturbare il silenzio causato dal lockdown, l'ordinanza governativa che aveva cancellato il chiasso prodotto da macchine, motorini, mezzi pubblici e folle.

Quel silenzio era la cosa che lo innervosiva di più. Lo faceva pensare a tutti i luoghi nei quali le persone si sentivano tenute a non alzare mai la voce: le chiese, gli ospedali...

I cimiteri.

Savino svoltò su un altro vialetto e si fermò dov'era nel vedere, seduta su una panchina, la persona che aveva sperato di incontrare quando aveva deciso di uscire di casa.

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