La creatura che hai al fianco è mia.
Io l’ho creata.
Io le ho voluto bene da sempre,
prima di te e più di te.Non volevo vederla costretta in un letto, vestita solo di una camiciola di carta, con la rimembranza di tutta la vitalità e l'energia che le bruciavano dentro, qualità che rischiavano di diventare solo un lontano ricordo quasi dimenticato.
Ma, naturalmente, questa era solo la bugia che raccontavo agli altri quando mi chiedevano: “Andrea, perché non vai mai a trovare Nadia?”. La menzogna, contorno di un piatto a base di egoismo, con la quale giustificavo l'averla abbandonata.
La verità era che ero io ad avere paura. Ero io a non essere abbastanza forte da starle accanto. Avevo il terrore, sì, il terrore folle di sentirla pronunciare quel fatidico “e se”.
Nadia aveva sempre avuto una tenacia, un attaccamento alla vita, che io non avrei mai avuto nella sua posizione. Ma era anche un essere umano, e come tale aveva tutto il diritto di terrorizzarsi davanti ad un referto medico che portava solo cattive notizie. Aveva tutte le ragioni di guardarmi con quei suoi occhi grandi, azzurri e pieni di sgomento, quando aveva sentito sentito pronunciare le parole: “tumore epiterale allo stadio 3c”.
Aveva il diritto di farlo perché si supponeva che fossi io la sua ancora di salvezza. Io ero il suo ragazzo. Io avrei dovuto starle accanto.
Però non l'ho fatto.
L'idea che lei potesse soccombere alla malattia non mi sfiorava nemmeno. Perché noi ci amavamo, e tanto, e dovevamo completare gli studi per poter andare a vivere assieme, per essere felici.
E tra una decina d'anni, avremmo riso pensando allo spavento che ci eravamo presi.
Dal punto di vista di chi ha visto troppe persone morire, che si era documentata, che sapeva cosa voleva dire quando il cancro raggiungeva i linfonodi, quel mio comportamento era visto come gretto e meschino. E lo era.
Ero un maledetto egoista, e anche un codardo. Lei aveva iniziato a dirmi: “Se non dovessi farcela...” e io ero scappato. Mi ero rifiutato assolutamente di affrontare quella prospettiva tutt'altro che assurda, un futuro che io avrei dovuto affrontare da solo.
Me ne andai e mi rintanai a casa mia. Per giorni, settimane, mesi, non feci altro che posticipare il momento in cui sarei tornato da Nadia, strisciante, e l'avrei vista senza capelli, o senza forze, o senza vita.Ma non puoi limitarti a godere del fascino.
Devi impegnarti a rispondere
ai suoi bisogni, ai suoi desideri.Il cancro ti cambia totalmente, anche se non sei tu ad averlo. Vedi tutto più cupo. Le preoccupazioni che avevi prima ti sembrano stupide e futili. Non c'è più il tempo per le risate. Ogni momento deve essere dedicato alla cura della malattia.
Facevo queste considerazioni mentre ero in camera mia, sveglio nonostante l'ora tarda, ad ascoltare il silenzio. C'è un problema, con i letti e con le notti insonni: hanno la capacità di tirare fuori il peggio dai meandri della tua mente. Ti costringono ad affrontarti, in completa solitudine. Non c'è nessuno che ti salvi da te stesso, quando tutti dormono e tu sei tenuto ben sveglio da qualcosa.
Il mio qualcosa era il senso di colpa: erano già due mesi che non vedevo Nadia. Mi aveva mandato un sms quel pomeriggio, chiedendomi se per favore, per favore, potevo passare dall'ospedale; un messaggio al quale avevo risposto con l'ennesima bugia, dicendo che dovevo studiare per un esame.
Il viso di Nadia e la sua voce – una voce che si era fatta sempre più debole con l'avanzare della malattia – continuavano ad attraversarmi la mente.
Ripensai al giorno in cui scoprimmo del suo tumore. Era andata dal dottore per un banalissimo esame ginecologico, e due ore dopo si era presentata a casa mia, pallida come la morte e tremante come una foglia in autunno.
«Cos'è successo?» le avevo chiesto, e lei aveva scosso la testa e si era gettata in lacrime tra le mie braccia. Da allora era stato tutto un eterno entrare ed uscire dagli ospedali, una lotta infinita contro qualcosa di più grande di noi, una guerra che difficilmente avremmo vinto.
E come avremmo potuto? Stavamo combattendo qualcosa di estremamente radicato all'interno del corpo di Nadia, qualcosa che stava succhiando via tutta la vita dal suo corpo.
«Non potete semplicemente rimuoverlo?» avevo chiesto alla dottoressa, che mi aveva guardato stralunata: già era un'enorme concessione il fatto che io fossi lì, figuriamoci se potevo permettermi di lasciare che certe stupidaggini mi uscissero di bocca.
«Purtroppo non è così semplice. Forse non sono riuscita a spiegarmi bene: la signorina Caputo, qui, ha un tumore avanzato al terzo grado. Significa che i suoi linfonodi sono compromessi, e... purtroppo non c'è quasi nulla che possiamo fare. Cercheremo di salvare il salvabile, poi faremo un ciclo di chemio, nella speranza che il tumore regredisca».
Nadia mi aveva guardato, con i suoi occhi grandi e azzurri e spaventati. Della persona che era prima di quella diagnosi non era rimasto quasi più nulla. Tutto il coraggio, la forza, la tenacia, l'allegria erano defluiti dal suo corpo, sostituiti da una pallida rassegnazione. Annuì.
Dovevo essere io la sua spada e il suo scudo.
Le stetti accanto nell'interminabile attesa prima dell'intervento.
Le tenni la mano quando ne uscì fuori, distrutta e completamente priva di forze.
La rincuorai quando la chemio le fece cominciare a perdere i capelli.
Ero al suo capezzale durante la lunga convalescenza.
Le raccontavo di come saremmo stati felici, di come il superamento della malattia ci avrebbe uniti ancora di più. Le descrivevo come sarebbe stata la nostra casa, quanti figli avremmo avuto e come si sarebbero chiamati, progettai la nostra vita insieme.
E dopo tutto questo, lei iniziò a parlarmi di morte.
E lì, lo confesso, ero crollato.
Le avevo detto che non ci doveva neppure pensare, che era un'egoista, una vigliacca, ed ero andato via. Tutto solo per non ammettere che anch'io avevo una dannata paura che lei morisse lì, da sola, in un letto d'ospedale. Volevo correre via, il più lontano possibile, per non vedere, non sentire, non sapere.
Eppure chiamavo quattro volte al giorno e le mandavo sms continuamente, perché quello era il ruolo che ci si aspettava che ricoprissi. Solo che ma non era la stessa cosa, non bastava.
Ovviamente non bastava.
E, nel profondo di me stesso, sapevo che non ero così prodigo d'attenzioni per lei, ma per me stesso: per liberarmi la coscienza da quella voce fastidiosa che mi ripeteva senza sosta “fai schifo”.
STAI LEGGENDO
Il Sopravvissuto
Short StoryNon volevo vederla costretta in un letto, vestita solo di una camiciola di carta, con la rimembranza di tutta la vitalità e l'energia che le bruciavano dentro, qualità che rischiavano di diventare solo un lontano ricordo quasi dimenticato.Ma, natura...