Guardando da quella piccola finestrella ciò che avevo nella mia visione era la vetrina del panettiere, ogni mattina lo vedevo arrivare, appoggiare la sua biciletta contro la persiana del negozio, sbuffare e tirarla su, entrava, girava il cartellino per indicare che il panificio era aperto, tornava a sbuffare e poi andava nel retrobottega. Alla sera lo vedevo uscire, chiudere la porta, tirare giù la tapparella, prendere la bici e, sbuffando, se ne andava. Questo capitava tutti i giorni. Ogni giorno, dal lunedì alla domenica.
Attraverso il mio piccolo buco, quella che tutti comunemente chiamerebbero finestrella ma che io preferisco chiamare "spazio per osservare la vita", non ti rendi conto di quanto il mondo sia ampio, di quanta gente vive ignara, nella sua piccola routine, nei suoi limiti e nelle sue convinzioni. Non ti rendi conto di quante persone vivano, ma senza vivere.
Ciò che vedevo ogni santo giorno erano persone che passavano con la testa rivolta all'ingiù per osservare lo schermo di un telefonino, erano persone che correvano guardando gli orologi, erano persone che entravano in panificio senza salutare e che se ne uscivano sbuffando perché probabilmente avevano atteso troppo il loro turno o perché ciò che volevano prendere era terminato.
Erano persone che avevano sempre la faccia senza alcuna espressione e le rare volte che osservavo qualcuno con al viso un'espressione quasi sempre era triste, innervosita o depressa. Era tutta gente monotona, gente triste, gente buia. Penso che il colore più adatto per descrivere la situazione era il grigio, nemmeno il nero, il grigio. Perché il grigio mi dà l'idea di qualcosa di fermo, di buio, di freddo. Qualcosa di incolore. Perché la vita di tutte le persone che vedevo era incolore. All'apparenza senza alcun senso. Era come se tutto ciò che vedevo quotidianamente, quel piccolo scenario di vita, fosse un fumetto, come se non rappresentasse la realtà. Era un fumetto in bianco e nero, in cui i protagonisti erano statici, sempre con gli stessi vestiti monocolori, sempre con le loro teste abbassate, sempre con le loro espressioni infelici.
Una mattina il mio sguardo fu attirato da dei riccioli lunghissimi rossi. Era una donna con indosso un vestito colorato e dei ridicoli collant viola che poco c'entravano con il resto dell'abbigliamento. Era come vedere un po' di colore in un contesto monocromatico grigio. Ma ciò che attirò maggiormente la mia attenzione, non fu unicamente il singolare soggetto che avevo nella visuale, ma il fatto che questa donna non sembrava di fretta, anzi procedeva con lentezza, e non guardava né l'orologio al polso né tantomeno lo schermo di un telefono, stava guardando in alto, stava guardando il cielo. Si fermò diverse volte, probabilmente per soffermarsi sulle nuvole, e quando finalmente si girò vidi il suo viso. Era un viso che non vedevo da diverso tempo. Aveva gli occhi che le brillavano, il naso un po arricciato e un sorriso sulle labbra. Era la rappresentazione della felicità. E di felicità come quella non la vedevo da diversi anni, tant'è che fui incuriosito a tal punto da voler sapere il motivo che la rendeva così felice, seppure fosse una perfetta estranea.
I nostri sguardi s'incrociarono. Nessuno, in due anni che sono qui, si era mai soffermato a vedere attorno a se, nessuno aveva mai notato il buco sulla parete grigia attraverso il quale io guardavo. Per la prima volta qualcuno si era accorto che una persona spiava la vita al di fuori di questo luogo. La donna misteriosa sorresse il mio sguardo e scoppiò in una risata per poi avvicinarsi.
Non era mai avvenuto che qualcuno si avvicinasse a questa parete così tanto come stava facendo questa ragazza, erano tutti impauriti, o comunque tutti così presi dalla loro vita frenetica e infelice che probabilmente non si erano nemmeno accorti della struttura che si trovava sulla strada.
Parlammo. Era da un sacco di tempo che non parlavo con qualcuno, la mia voce era roca e lieve mentre la sua voce era fluida, tranquillizzante ma al tempo stesso energica. Era come miele con una punta di zenzero. Emanava solarità e voglia di vivere. Non era per niente intimorita di parlare con me, un perfetto sconosciuto, che dato le circostanze avrebbe potuto essere un serial killer di prima categoria. Ma questo pensiero evidentemente non le apparve nemmeno per un secondo dentro la sua testa coperta da quella cascata di riccioli.
Non posso quantificare il tempo che abbiamo parlato, ma dev'essere stato tanto, perché un allarme mi risvegliò da quella conversazione. Era l'ora del pranzo. Ci salutammo.
Da quando se ne andò la mia mente era fissa su quella donna stravagante, che aveva dato colore a quella realtà grigia che ero abituato a vedere giorno dopo giorno.
La mattina successiva, con mio grande stupore, rividi la massa di capelli rossi che solo successivamente scoprii chiamarsi Carlotta. La rividi quella mattina, e quella dopo ancora. Finchè non divenne un nostro piccolo appuntamento implicito, stessa ora, stesso posto, anche perché anche se avessi voluto io non sarei potuto andare da nessun'altra parte.
Lei era ogni giorno più solare, era come se al mattino al posto del solito caffè bevesse una dose di positività mista ad allegria. Cosi, una volta le chiesi cosa la rendesse così felice, se fosse successo qualcosa di particolare nella sua vita. E la sua risposta fu che nella vita c'erano fin troppi momenti brutti, e che non era necessario avere un motivo particolare per essere felici e avere il sorriso sulle labbra. Quella risposta inizialmente mi fece sorridere ma poi mi fece riflettere molto. Da quando lei era entrata nella mia quotidianità, o meglio, nella mia visuale, la mia vita era diventata un po' più colorata, e l'attesa di uscire era sempre più forte.
Grazie a lei inizia a credere che forse il mondo non era così monocromatico, che forse non era così noioso, così triste. Che forse quel mondo era solamente ciò che io per anni avevo visto quotidianamente dalla mia cella. Forse il mondo non era quello scenario che io vedevo. Forse quella realtà era solo la piccola e limitata visione che io avevo dal mio buco, da quella dannata finestrella.
E lì capii. Capii che quello che avevo visto per anni, era solamente una parte minuscola della vita che circonda le persone. Capii che come non bisogna limitare la visione delle cose, non bisogna limitare la mente, l'orizzonte delle possibilità che ci stanno attorno. Capii che il mondo non era in bianco e nero, magari alcuni angoli si, ma non tutto. Capii che la mente non deve essere limitata perché abituata a qualcosa, ma che debba essere estesa anche a ciò che c'è di nuovo. Capii che, purtroppo, alcune circostanze, inevitabilmente ci limitano, ma che bisogna sempre spaziare, andare oltre. Perché io per anni osservando la stessa strada e le stesse persone mi sono autolimitato a credere che ciò che vedevo era ciò che era, senza soffermarmi che quello che vedevo era una minima parte del resto, perdipiù percepito da una persona che non vede la luce del sole da anni.
E capii una cosa, forse la più importante. Che non bisogna avere paura del mondo esterno, che non bisogna aver paura di osare, di fare delle scelte.
La libertà, capii, è intraprendere una strada, e farla propria, anche senza sapere a dove porta.
Ma io, una volta uscito, sapevo dove volevo arrivare. La mia meta era una di nome Carlotta.
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🅻🅰 🅼🅸🅰 🅿🆁🅸🅶🅸🅾🅽🅴
Short StoryUn piccolo spiraglio per osservare la vita, o uno spiraglio di vita da osservare? Il protagonista guarda ogni giorno della sua prigionia le stesse persone con le loro abitudini, creandosi un immagine di una vita vissuta in modo neutrale e insignifi...