Capitolo 38

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Mina continuava ad aprire e chiudere gli occhi. Non riusciva a credere a ciò che stava vedendo. Non voleva farlo. All'improvviso, come un flash abbagliante e fastidioso, unì i puntini. Il pestaggio, il continuo divagare, le bugie degli ultimi giorni, gli impegni nascosti. Era quello, che non voleva dirle. Le stava nascondendo qualcosa che sapeva avrebbe preso male, per evitare, forse, una lite. L'aveva tenuta all'oscuro, per non farsi giudicare.

Mina avvertì la rabbia montarle. Il respiro si fece pesante, le mani iniziarono a tremare, la gola diventò improvvisamente secca. Iniziò a correre, senza pensare all'auto lasciata aperta, ad Arya affamata, a Ronnie che, ne era certa, stava studiando ogni suo movimento. Si fermò sul ciglio del bosco, impaziente che il gruppetto di ragazzi si allontanasse. Quando li vide ormai distanti, non perse ulteriore tempo. Colin era lì, intento ad accendere l'ennesima sigaretta della giornata. Non l'aveva vista e Mina fu grata. Riuscì a sorprenderlo da dietro, tirandogli uno schiaffo non troppo gentile in pieno collo.

«Ma sei impazzito?» urlò, facendolo voltare terrorizzato. L'espressione del ragazzo mutò non appena capì di avere lei davanti. La guardò con aria di sfida, appoggiandosi a un albero con la schiena. Alzò anche il piede destro, che raggiunse lo stesso tronco, e incrociò le braccia al petto. Inarcò un sopracciglio folto, fingendo indifferenza.

«Che vuoi?» chiese buttando fuori un'enorme boccata di fumo diretto a lei. Quasi ghignò, accorgendosi del fastidio provato dalla ragazza. Lei non si fece intimidire, comunque. Agitò appena una mano davanti al viso, smuovendo quella nuvola che sparì in fretta. Lo guardò per qualche secondo, prima di rispondere. Gli puntò contro un dito, avvicinandosi il più possibile, attenta a non sfiorarlo.

«Ti sei messo a spacciare?» sibilò; la domanda era piuttosto retorica. Cercò di frenarsi per non urlare, non voleva che Ronnie o qualche ospite del cimitero ancora nei paraggi ascoltasse quella conversazione. Non voleva rischiare di mettere nei guai il ragazzo. «Con chi?» aggiunse.

Colin ridacchiò beffardo, scuotendo simultaneamente il capo prima di abbassarlo un po' e stringersi il naso con due dita. Si schiarì la voce, buttò la sigaretta ormai finita, assicurandosi di spegnerla bene, e sistemò appena il collo della giacca di pelle. La guardò, continuando a sfidarla con quegli occhi scuri. Mina fece un passo indietro: non l'aveva mai guardata così, nemmeno all'inizio. Percepiva disgusto, quasi odio. Avrebbe pianto, se la paura e la rabbia di quel momento non avessero frenato le lacrime.

«Perché ti importa?» grugnì lui. «Io e te non siamo niente. Non sei la mia ragazza, non sei mia amica, non sei mia madre o mia sorella. Perché ti importa?»

Lei sgranò gli occhi. Voleva ferirla, pungerla nell'orgoglio, e ci stava riuscendo magistralmente. Fosse stata qualsiasi altra persona, quell'orgoglio avrebbe prevalso, portandola lontano da quel luogo e da lui. Ma era Colin. E lei teneva troppo a Colin per tirarsi indietro.

«Perché ci tengo, stupido idiota. Non credi nemmeno più a questo? Per una cavolata fatta, hai cancellato tutto?» urlò. Sentì la voce tremare, mentre gli occhi iniziavano a riempirsi. Se li asciugò senza vergogna. Era Colin, di che avrebbe dovuto vergognarsi?

«Io non credo più a niente, dopo quello che hai fatto» bisbigliò lui a testa bassa. «L'hai fatta troppo grossa. Non è stata una semplice cavolata, non lo capisci?» Sussurrando l'ultima frase, alzò gli occhi, leggermente arrossati. La rabbia e il disgusto avevano lasciato il posto a una delusione cocente, difficile da mettere da parte. Mina provò a superarla, avvicinandosi di più e sfiorandogli la mano. Un gesto leggero e lento, quasi timoroso.

«Lasciami spiegare» sussurrò. Lo vide scuotere la testa, prima di ritrarre la mano con uno scatto repentino. La ragazza sospirò affranta.

«Non ci riesco. Non riesco a crederti» rispose, abbassando di nuovo la testa. «E ora lasciami in pace. Stai fuori dalla mia vita come io starò fuori dalla tua» sentenziò cominciando a camminare. Provò a richiamarlo ma lui allungò il passo fino a sparire tra la fitta boscaglia. Mina si lasciò andare contro la sequoia che aveva sostenuto lui poco prima. I singhiozzi divennero presto fastidiosi e costanti tanto da farla tossire. Conati di vomito la travolsero ma, nonostante gli sforzi, non uscì nulla. Sentì la testa girare un po' e dovette accasciarsi per non cadere, fregandosene dei vestiti costosi che quel terreno avrebbe irrimediabilmente rovinato. Niente aveva più valore, non ora che aveva definitivamente perso Colin.

***

L'idea di rispettare il volere di Colin non aveva nemmeno sfiorato Mina che, per tutto il tragitto dal cimitero a casa, non aveva fatto altro che pensare a come aiutarlo per risolvere quella situazione. Scendendo dalla macchina, prese il cellulare dalla borsa. Non lo controllava da ore e rimase stupita nel trovare innumerevoli chiamate e messaggi, tutti di Eva. Sospirò, prima di entrare in casa, cercando di prepararsi all'ira inevitabile della matrigna. Era tardi, aveva saltato il pranzo domenicale.

«Dico ma sei fuori di testa?» La voce acuta e urlante della donna la accolse. Mina scrollò le spalle, guardandola di sbieco. Provò a parlare, ma Eva la sovrastò completamente. «La domenica si pranza a casa, lo sai. Non c'è scusa che tenga» disse perentoria fissandola. La ragazza notò il padre ancora seduto a capotavola. L'uomo la guardò per qualche secondo, prima di distogliere lo sguardo indifferente.

«Pensavo non mi voleste» sussurrò alzando il viso verso Eva. «E, comunque, avevo da fare. Ero al cimitero» disse l'ultima frase puntando gli occhi azzurri sul padre. Voleva scuoterlo, sfidarlo. Lui tremò leggermente ma non si scompose, fingendo interesse per la televisione spenta. Mina ridacchiò amara e salì verso la sua stanza senza dare alla matrigna il tempo di aggiungere altro. Non voleva ascoltarla, non voleva litigare. Non aveva tempo.

Si chiuse in camera liberando Arya del collare che la stringeva dalla mattina. La cagnolina ne fu lieta, tanto da scodinzolare contenta per qualche secondo prima di buttarsi sul suo cuscino preferito ai piedi del letto. Mina sorrise appena, vedendola, e un po' la invidiò. Era così spensierata, non aveva alcun problema. Prese la ciotola col nome dell'animale ben definito e gliela mise vicino, riempiendola con i croccantini che teneva sempre in camera. Arya ci si fiondò senza aspettare. Era affamata e Mina, per l'ennesima volta, si sentì in colpa. Anche verso di lei.

Sbuffò sonoramente, avvertendo un leggero senso di fame. Prese una barretta energetica, buttata in borsa da chissà quanto, e la mangiò in due morsi, mentre scorreva attenta la rubrica del telefono. Fissò quel nome per interi minuti, poi fece partire la chiamata.

Non parlava con Micol da giorni, e forse ricominciare da Colin era l'unica soluzione. Mina sapeva quanto ci tenesse: era protettiva e attenta, non avrebbe ignorato quel problema per una litigata sciocca.

Il telefono continuò a squillare a vuoto finché la chiamata non cadde. Avrebbe potuto darsi per vinta, ignorare quello che aveva visto e che Colin non aveva negato. Ascoltarlo. Ma non voleva. Doveva impedirgli di rovinarsi la vita.

Provò a contattare Micol per l'intero pomeriggio senza mai desistere. Un paio di telefonate le aveva interrotte l'interlocutrice dall'altra parte, segno che non aveva la minima intenzione di parlarle. Mina si rabbuiò appena. Quel lato della migliore amica non lo aveva mai conosciuto e iniziò a capire di averla fatta davvero troppo grossa. Tutti ce l'avevano con lei, tutti la odiavano. Le persone che amava non riuscivano nemmeno più a guardarla negli occhi e l'approvazione di Eva, di Wilma e di Andrew certo non bastava a risollevarle il morale.

Continuò a chiamarla per tutto il giorno, fino a tarda sera. Aveva ignorato ogni messaggio e ogni chiamata degli amici, pur di lasciare il cellulare libero, con la vana speranza che Micol ci ripensasse.

Non lo aveva fatto, e Mina si era addormentata ancora vestita col telefono tra le mani e la promessa che, il giorno dopo, avrebbe continuato. L'avrebbe vista a scuola e, allora, non sarebbe scappata. Non avrebbe potuto.

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