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Era un normale bar: c'erano ragazzini che giocavano ai videogiochi, una coppia di fidanzati che parlava a bassa voce tenendosi per mano. Il barista era un uomo corpulento dal viso pieno e simpatico.

Non era quello che mi aspettavo, forse Luca si era sbagliato o forse ero io ad aver sbagliato bar.

Non volevo che si notasse troppo che fossi alla ricerca di qualcuno, così mi avvicinai al bancone e ordinai un caffè.

«Siediti pure, te lo faccio portare al tavolo», disse l'uomo con tono gentile.

Perfetto, pensai, così avrei potuto dare un'occhiata in giro.

Mi spostai sul fondo del locale, c'erano diversi tavoli liberi, ma dei tizi che stavo cercando non c'era traccia.

Una piccola scalinata portava ad un'altra stanza, più appartata e molto meno illuminata. Se fossi stata uno spacciatore mi sarei seduta lì.

Così scesi quei pochi scalini e, nel tavolo più lontano, li vidi: i quattro grossi uomini erano accompagnati da altri tre che non avevo mai visto.

Mi sedetti il più possibile vicino alle scale e il più possibile lontano da loro, con il cuore in gola e le gambe tremanti, ma già pronte a scappare se la situazione si fosse messa male.

Il tizio sfregiato mi vide quasi subito e diede uno strattone al Boss che gli era seduto vicino, contemporaneamente tutti e sette si voltarono verso di me.

Una manciata di secondi in cui il mio cuore si fermò, poi tornarono ai loro discorsi.

Parlavano a bassa voce, non riuscivo a capire che poche parole.

Sussultai quando una giovane cameriera mi portò il caffè: non l'avevo sentita arrivare.

«Grazie». Fui tentata di aggrapparmi forte ad un suo braccio e supplicarla di restare, ma non lo feci e lei, sorridendo, se ne andò.

I tre uomini che non avevo mai visto si alzarono dal tavolo e vennero nella mia direzione. Quasi rovesciai la tazzina di caffè.

Mi oltrepassarono e salirono le scale lasciandomi completamente sola con i quattro uomini, per me fin troppo noti.

Guardavo il tavolo, sorseggiando il mio caffè, ma sentivo i loro sguardi addosso. Poi con la coda dell'occhio li vidi alzarsi.

Non potevo lasciarli andare via, dovevo fermarli, ma non sapevo cosa dire. Credevo di avere più tempo per trovare il modo di avvicinarli.

Mentre pensavo alle parole da dire, con mia sorpresa, i quattro invece di prendere le scale si sedettero al mio tavolo.

«Ciao bellezza, ti ricordi di noi?», disse uno di loro sedendosi nel posto di fronte al mio, mentre alla mia destra si sedette lo sfregiato e alla sinistra il boss.

Lo sfregiato mi toccò la mano, io rabbrividii e la tolsi subito nascondendola sotto il tavolo.

Mi sentivo in trappola e ci ero entrata da sola, volevo urlare e scappare via, il più lontano possibile. Invece respirai a fondo e mi feci coraggio.

«In realtà cercavo proprio voi», le parole mi uscirono fluide e sicure. Era l'adrenalina che parlava, di certo non io.

«Cercavi noi?», chiese il Boss, meravigliato.

«Sì - abbassai la voce per essere certa che nessuno sentisse quello che stavo per dire - mi manda Jimmy».

«Come sta il nostro amico Jim? È da un po' che non si vede in giro, pensavamo avesse trovato altri amici».

Capii subito cosa intendeva dire, l'avrei capito anche se non avesse sottolineato la parola amici con tutta quell'enfasi: pensava avesse trovato altri spacciatori.

«Ma figurati - stetti al gioco - siete sempre voi i suoi amici, è solo che ultimamente esce poco».

«Capisco, sta cercando di ripulirsi».

Risero tutti insieme. Quella risata mi bruciò nel profondo. Ridevano di lui. Ridevano di me.

«Quelli come lui - disse lo sfregiato avvicinandosi ancora di più - quelli come noi, non saranno mai puliti, bambolina. Ti stai prendendo in giro da sola se pensi di aiutarlo. È meglio che ti trovi un altro amico».

Chiusi le mani e le strinsi forte per la rabbia, avrei voluto tirargli un pugno, ma ero lì per un altro motivo.

«Forse hai ragione - soffocai l'impulso d'ira che mi aveva assalito - per questo sono qui. Ho bisogno di...», non sapevo come dirlo, ma loro capirono al volo e risero di nuovo.

«Ok, ok, ce li hai i soldi?», chiese il Boss andando subito al sodo.

«Certo».

«Perfetto», disse lo sfregiato con un brutto ghigno in faccia, sussurrandomi all'orecchio.

«Ora noi usciamo, tu resta qui altri dieci minuti, così non daremo nell'occhio, poi fa lo stesso. Appena fuori da qui, gira a sinistra, percorri la via fino in fondo. Sulla destra troverai un vecchio capanno abbandonato, bussa tre volte. Ti aspetteremo lì».

Senza darmi nemmeno il tempo di rispondere, si alzarono quasi in contemporanea e se ne andarono.

Rimasi immobile, seduta al mio tavolo, paralizzata.

E se fosse stata una trappola? Sarei dovuta entrare in un capanno, da sola, con quattro spacciatori enormi, probabilmente armati e male intenzionati.

E il modo in cui mi guardava lo sfregiato poi, da mettere i brividi.

Cercai di non pensare al peggio, di non pensare a niente, ma era impossibile.

Aspettai ancora un po', poi mi alzai. Mi dovetti appoggiare al tavolo per non cadere, le gambe non mi sorreggevano, erano pietrificate.

Salii le scale barcollando e appoggiandomi alla parete, come ubriaca. Pagai il mio caffè e uscii.

L'aria viva fuori dal locale mi fece rinsavire e mi tornò la voglia di scappare via.

Purtroppo c'era qualcosa di più importante, più importante della mia stessa vita. Così seguii le indicazioni e, lentamente, percorsi la stretta via che mi portava dritta all'inferno.

Lo stesso peso dell'amoreDove le storie prendono vita. Scoprilo ora