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Passavamo tutto il giorno insieme, tutti i singoli giorni, eppure eravamo due estranei.

Mi aspettavo che, con il passare del tempo, le cose sarebbero migliorate, che una volta superata quella fase orrenda di dolore fisico, depressione e scatti d'ira, lui sarebbe tornato ad essere il ragazzo meraviglioso che, in un tempo lontano - così lontano da sembrare ormai un'eternità - mi aveva portata al Luna Park e mi aveva fatta sentire come una principessa.

Invece il muro di silenzio tra noi era sempre più insopportabile.

Avevo smesso di andare a lezione, di studiare, di leggere, di ascoltare musica. Avevo smesso di vivere.

Anna non mi veniva più a trovare da giorni. Ero stata io a chiederle di restare lontana per un po', avevo paura delle reazioni di Luca, bastava un niente perché perdesse la calma.

Ogni tanto ci sentivamo al telefono, mi teneva aggiornata sulla vita che passava anche senza di me.

Qualche volta parlavo con mia madre. Quelli erano i momenti peggiori perché dovevo mentirle. Fingere di stare bene mi costava tante energie. Energie che ormai non avevo più.

Ero certa che si fosse accorta che qualcosa non andava, ce la mettevo tutta per recitare la mia parte a regola d'arte, ma la voce mi tradiva, la maggior parte delle volte.

Seduta al tavolo da pranzo cercavo di studiare un po', mentre Luca vagava per casa come un'anima in pena. Erano le quattro di un pomeriggio come tanti, fuori c'era il sole, ma io non ci facevo più nemmeno caso.

Luca entrò in cucina, rumorosamente aprì gli sportelli della credenza in cerca di qualcosa. Si muoveva nervoso, come in preda ad una frenesia. Cercai di ignorarlo e di concentrarmi sul libro.

Si sedette di fronte a me, appoggiando senza troppa delicatezza le braccia sul tavolo. Il ripiano sussultò e la penna sul foglio sfuggì al mio controllo, segnando una bella riga irregolare su metà pagina.

Alzai il viso dal foglio e lo guardai con rabbia. Non era una novità, tra noi ultimamente non c'erano altri sentimenti da manifestare.

«È finito tutto!», sbottò rompendo inaspettatamente un silenzio che andava avanti da giorni.

«Si può sapere di che cosa stai parlando?», chiesi senza riuscire a provare niente.

«Della pasta, del pane, di quegli schifosissimi cereali che mi prepari per colazione, tutto!».

Mi sembrò talmente strano sentire il suono della sua voce, che quasi non la riconobbi. Non era la voce calda e bellissima di un tempo, era una voce stanca, rauca, banale. Una voce che non aveva niente di bello o speciale. Una voce che non mi faceva battere il cuore.

«Lo so», restai impassibile. I suoi scatti d'ira non m'impressionavano più, era sempre meglio della solita indifferenza, almeno avevamo un dialogo o qualcosa di simile.

«Allora cosa diavolo aspetti ad andare a fare la spesa?», gridò sbattendo un pugno sul tavolo e rovesciando il vaso che c'era sopra, per fortuna vuoto. I fiori che ci avevo messo tempo prima erano appassiti da un pezzo.

«Sai che non posso lasciarti solo», rimisi il vaso al suo posto poi, rapidamente, raccolsi i libri e cercai di uscire dalla stanza prima che la situazione degenerasse, ma lui mi afferrò per il polso e mi strattonò impedendomi di andarmene. I libri caddero a terra in un tonfo sordo, aprendosi sul pavimento. I foglietti con gli appunti si sparsero per la cucina.

«Certo che puoi uscire», disse improvvisamente calmo e gentile, di nuovo la sua voce si riempì della dolcezza che aveva perso.

«Ora sto bene, puoi andare tranquillamente e poi è solo questione di pochi minuti».

Lo stesso peso dell'amoreDove le storie prendono vita. Scoprilo ora