prologo

394 54 29
                                    


«Se avete paura di perdere una persona, è perché la state già perdendo.»
(anonimo.)

Quando arrivammo all'ospedale il vento sferzava gli alberi e sembrava ululare contro i finestrini dell'auto. Per quanto mi stringessi nella giacca come un cucciolo abbandonato, non riuscivo a scacciare il freddo e la netta sensazione che presto sarebbe successo qualcosa di inatteso.
Davanti alla porta del grande edificio di mattoni scuri c'era una signora anziana. Il suo volto era segnato da profonde rughe simili a righe tracciate con la matita sulla pelle, e la sua bocca incurvata all'ingiù pareva non essersi mossa da un tempo infinito.
Se ne stava seduta contro la porta scorrevole dell'ospedale e mi fissava. Per un momento mi persi nei suoi occhi azzurri e liquidi, e sarei voluta restare lì per sempre, come in un limbo, in bilico tra sogno e realtà. I suoi occhi avevano un che di magico, sembravano contenere a stento un mare in tempesta, sebbene il suo corpo provato dall'età e dalla malattia suggerissero una debolezza fisica ed interiore.
Poi la donna cominciò a tossire sempre più forte e due infermieri le si avvicinarono. Il suono che produceva era simile a quello di un animale ferito e morente. Uno dei due infermieri, un ragazzo giovane e biondo, si lasciò sfuggire un «Quanto può andare avanti in questo modo, cavolo?» rivolto al collega. Quello non rispose e si limitò a tirare su il corpo scosso dai tremiti della donna con un'espressione concentrata.
Non mi mossi, non potevo farci niente.
Non potevo aiutare me stessa, figuriamoci se ero in grado di fare qualcosa per gli altri.
Qualcuno mi strattonò per un braccio. Una voce secca e spazientita mi riportò alla realtà.
«Muoviti.»

La sola idea di entrare nello studio del dottore mi dava il voltastomaco. Il pensiero di quello che sarebbe successo di lì a poco mi stringeva la gola come una morsa.

Continuavo a mangiarmi le unghie, avevo il respiro corto e non sentivo il pavimento sotto i piedi, come se qualcuno mi stesse facendo volare, senza però portarmi via con sé.

«Cerca di stare calma, Amy.» mi consigliò una voce distaccata.

Senza staccare gli occhi dalla porta dello studio, feci scivolare qualche parola fuori dalle mie labbra. «Non vedo come potrei.»

Eleonora sospirò, probabilmente seccata dal mio comportamento. Era una persona acida e cinica, non mi aveva mai capito né ci sarebbe riuscita in futuro, ma come zia poteva andare bene.
Mi correggo: dovevo farmela andare bene, perché - probabilmente - era l'unica persona della mia famiglia rimasta in vita.

A quel pensiero il mio stomaco ebbe una violenta contrazione.
Io sarei rimasta sola. Sola con Eleonora. Per sempre.

Forse.

Tutto dipendeva da ciò che avrei scoperto entro qualche minuto.
Ero nelle mani di quel dottore che se ne stava di là, nell'altra stanza. Una sua parola e la mia vita sarebbe cambiata per sempre.

«Smetti subito di mangiarti le unghie. Guarda in che stato sei!».
Mia zia si alzò dalla poltrona di plastica della verdognola sala d'attesa. Non potevo credere che si stesse comportando da prima donna proprio in quel momento. Avrei soltanto avuto bisogno di una parola rassicurante, di un abbraccio, e invece lei stava per attaccarmi. Non sapevo se sarei riuscita a sopportarlo. Per tutta la mia vita ero rimasta zitta di fronte ai suoi modi di fare, ma in quel frangente non credevo di poter rimanere buona al mio posto.

Lei cominciò a fare una scenata. Mani tra i capelli perfetti, tenuti insieme da litri di lacca, bocca rossa aperta, occhi - perfettamente truccati, palese tentativo di farli sembrare più profondi - sbarrati e irritati, prese a farmi mille rimproveri del tutto fuori luogo.
Mi avevano insegnato a stare buona e a non contraddire gli adulti, perché era così che si doveva fare. Ma questo me lo avevo insegnato i miei genitori, ed ora forse loro non c'erano più. Dovevo ancora rispettare le loro regole? Avevano ancora un senso per me?

«Non dico che tu sia un'adulta, Amy, ma abbi la decenza di controllarti e di mostrare un po' di contegno!».

Mi voltai di scatto, come se mi avesse appena dato una sberla. «Scusami?».

La mia voce risuonò glaciale nella stanzetta asettica. Per qualche attimo, nessuna di noi riuscì a parlare - io per la rabbia e la frustrazione che mi bloccavano il respiro e mia zia, suppongo, per la sorpresa. Sul suo volto si disegnò un'espressione di disgusto.
Lei disgustata da me. Ridicolo. Semmai io sarei dovuta esserlo, e invece non provavo nient'altro che paura e stanchezza.

«Tua madre non ti ha insegnato il rispetto?», tornò all'attacco la zia, con aria quasi di sfida.

Avrei voluto risponderle per le rime, far accartocciare quel volto così altezzoso e pieno di sé, quando la porta dello studio si aprì.

«Amy? Sei tu, figliola?».

Era il medico. Avevo già sentito quella voce al telefono poche ore prima.

Mi portai le braccia al petto, provando a recuperare un po' di contegno.

«Sì. Sì, sono io. Eccomi.»

Lo seguii nella stanza, lasciando dietro di me quella terribile donna che era l'unica ad essermi rimasta accanto, mentre la disperazione mi stringeva lo stomaco fino a farmi male.

Se c'è una cosa che ho imparato, durante questi anni, è che se i dottori iniziano a chiamarti in modo così paterno e dolce, ci sono tremende notizie in arrivo.



CIAO! Sto  riprendendo in mano questa storia dopo parecchio tempo. Non so cosa ne uscirà. Voi cosa ne pensate? 

Hai finito le parti pubblicate.

⏰ Ultimo aggiornamento: Oct 20, 2019 ⏰

Aggiungi questa storia alla tua Biblioteca per ricevere una notifica quando verrà pubblicata la prossima parte!

never againDove le storie prendono vita. Scoprilo ora