Gellert Grindelwald stava fissando il soffitto della sua cella, steso sulla branda che gli fungeva da letto da ormai troppi anni, quando un sonoro crack! interruppe il flusso dei suoi pensieri. Non gli servì voltarsi per capire chi si era appena smaterializzato al centro della stanza. In più, non voleva farlo. Temeva che se si fosse girato avrebbe scoperto che lui era soltanto un'allucinazione. Una di quelle che venivano a trovarlo nel bel mezzo della notte, nei giorni peggiori, quando gli pareva di sentirlo chiamare il suo nome. Ma non era ancora notte, e di certo non stava dormendo.
«Gellert».
Allora, finalmente, si voltò e vide Albus Dumbledore torreggiare a un passo da lui, in tutto il suo splendore. Indossava una veste azzurrina con dei ricami piuttosto intricati, e sulla sua testa campeggiava addirittura un cappello (blu - notò, in pendant con l'abito). I capelli e la barba erano più lunghi e decisamente più candidi dall'ultima volta che si erano incontrati, quattordici anni prima. In loro non era rimasta nemmeno una traccia del rosso di un tempo. Per qualche motivo, questa constatazione gli provocò una piccola fitta di dolore al petto. Gli occhiali dorati a mezzaluna che inforcava sul naso, però, erano sempre gli stessi, come gli occhi che proteggevano. Azzurri e scintillanti, perché certe cose non cambiano proprio mai.
«Wilkommen, Albus. Ti stavo aspettando».
Era vero, aveva avuto una visione qualche notte prima - quante notti fa? Sei, sette, oppure cento? Non riusciva proprio a ricordarlo.
Albus che si presentava nella sua cella con un'aria sfatta, tremendamente stanco e vecchio. La Vista non lo aveva tradito neanche quella volta, a quanto pareva, perché era esattamente questo l'aspetto dell'uomo che stava guardando.
«A cosa debbo l'onore? È passato un po' di tempo dall'ultima volta che sei venuto a trovarmi». Il suo inglese era arrugginito, e l'accento più marcato che mai, dopo tutti quegli anni passati a tacere. Non avrebbe mai parlato da solo; non era un folle.
«Amico mio, spero che potrai perdonare questa mia improvvisa incursione. Ho avuto un piccolo disguido a Hogwarts. Delle incomprensioni col Ministro».
«Che tipo di incomprensioni?»
«Oh, a quanto pare era convinto del fatto che lo avrei seguito ad Azkaban di buon grado».
Un suono rauco che doveva assomigliare a una risata uscì dalla bocca di Gellert.
«Davvero? Quindi, sei a tutti gli effetti un fuggitivo?»
«In verità, sono venuto a chiederti asilo. Vorrei domandarti se posso restare qui per qualche tempo, naturalmente se non ti arreco disturbo».
Come sei formale, Albus. Credi forse che io sia uno dei delegati del vostro governo? O, peggio ancora, uno dei tuoi cari ragazzi? Lo scintillio che pervadeva gli occhi marini del mago, tuttavia, tradiva della sincera emozione, e Gellert capì che quelli erano solo dei trucchi, come li chiamavano i babbani. Dei trucchi da bambino troppo orgoglioso per chiedere un abbraccio alla mamma, dopo essersi fatto male.
Allora, si alzò finalmente dalla branda e si mise a sedere. Facendo un po' di spazio, batté con la mano sulle lenzuola stracciate accanto a lui.
«Non posso offrirti molto, temo».
Albus colse l'invito e si accomodò accanto a lui. La branda cigolò, non avvezza a reggere il peso di due corpi.
«Mi accontenterò».
Albus si lasciò sfuggire un sospiro di sollievo, come se avesse trattenuto il fiato fino a quel momento. Da quanto trattieni il respiro, Albus? Sono ore, oppure anni?
«Raccontami tutto».
Gli raccontò dei suoi cari ragazzi, del Prescelto e del Mangiamorte che ora faceva la spia ai suoi ordini; gli disse del Ministero corrotto, della donna che avevano inviato per spiare lui, questa volta, e degli eventi che avevano sconvolto il castello da quando il Prescelto vi aveva messo piede. Gli raccontò di Tom Riddle; del fatto che nessuno credesse che fosse davvero tornato, perché avevano tutti paura di cosa avrebbe significato una nuova guerra. Poi tacque, e allora fu lui a parlare:
«Vi ho visti combattere. Ho visto la paura nei suoi occhi».
Albus lo osservò, e la tristezza che il suo viso non riusciva a celare fu improvvisamente coperta da un'intensa curiosità.
«Sente che c'è qualcosa in te che ti rende quello che sei. Che ti rende potente e superiore a lui, anche se non vuole accettarlo. Non ha paura della cosa in sé. No, ciò che lo terrorizza davvero è il non riuscire a capire che cosa sia esattamente. È arrabbiato per questo. Terribilmente arrabbiato. Si sente stupido. Ha passato giorni interi a pensarci, ma non riesce proprio a capire cosa sia. Cos'è che ti rende diverso da lui».
«E che cos'è questa cosa? Dimmelo, Gellert».
Gellert sorrise, perché sapeva che Albus lo stava sfidando. Sai benissimo cos'è. Non mosse gli occhi, tenendoli fissi sulla parete davanti a loro. Si limitò a cercare la mano di Albus e, trovatala, la strinse affettuosamente.
«Ah, Liebling...»
Albus aveva sinceramente creduto di essere troppo vecchio per quel tipo di sentimenti, ma si sbagliava. Si appigliò alla mano di Gellert come un naufrago in mare aperto si appiglia all'ultimo pezzo di legno della sua zattera, tentando, al contempo, di convincere il suo cuore a ritornare a battere; il cuore che gli si era fermato nel petto quando, dopo decenni - o forse erano stati secoli? -, aveva udito quel vezzeggiativo uscire dalla bocca di Gellert.
«È la cosa che ti aiuterà a sconfiggerlo, proprio come hai sconfitto me, quella notte».
«Non è la stessa cosa, Gellert».
«No, non lo è. Non lo è». Si interruppe per un po', pensando a un'estate lontana e a un giovane mago dai capelli color del fuoco.
«Sai qual è la cosa che mi rende diverso, perché anche tu la conosci. La conservi dentro di te. È ciò che ti rende diverso da Voldemort, e simile a me».
«Buffo, però. La stessa cosa che ti fece vincere, ha causato la mia disfatta e mi ha costretto a un'esistenza da prigioniero in questa fortezza».
«Non ho vinto, quella notte, Gellert. Lo sai».
«Può darsi che tu abbia ragione... Io e te, in fondo, viviamo semplicemente in due diversi tipi di prigione. La tua è solo un po' più sfarzosa della mia».
«Ora siamo insieme, però».
Bugiardo.
«Te ne andrai, come sempre».
Non ce la fece proprio a non essere risentito. Eppure, lo sapeva. Sapeva che lo avrebbe di nuovo abbandonato lì. Era una vita che scappava. Perché non riusciva, una buona volta, ad abituarsi all'idea che Albus non gli sarebbe mai stato accanto? Era una vita che le loro vite erano separate.
Bugiardo.
Questa volta, lo disse a se stesso.
«Più tardi me ne andrò. Adesso, però, sono qui».
Albus sorrise, ed era ancora triste, ma strinse un po' più forte la sua mano e questo gli sembrò abbastanza. Era quella la cosa che Voldemort non avrebbe mai capito. Erano loro due, vecchi, distrutti dagli anni e dal peso dei loro peccati, che si stringevano la mano nella cella di una torre in mezzo al nulla. Ad Albus era sempre piaciuta quella parola, a lui no.
Amore.Note:
Wilkommen: «benvenuto»
Liebling: «tesoro»Angolino dell'autrice:
Ho scritto questa fic di getto perché amo questa coppia. Spero che vi siate divertiti a leggerla. Se vi va, lasciatemi un commento. Un abbraccio a tutti,
- Queen
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La cosa che ci rende diversi
FanfictionAlbus Dumbledore è in fuga da Hogwarts durante HP5, dopo che il Ministro ha provato ad arrestarlo e a mandarlo ad Azkaban. Quale posto migliore in cui rifugiarsi di Nurmengard? DISCLAIMER: La fan art che ho usato per realizzare la copertina di quest...