Labirinto

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"16 febbraio 1940, Mosca, Russia

Cara Katyusha,

sono desolato dal fatto che non potremo vederci questo mese, ma mi rallegra la notizia da poco giunta qui che ti senti meglio. La vita qui è la solita, le giornate lunge e stremanti, le notti fredde e spesso insonni. Darei oro per un piatto di cibo caldo e un comodo letto con morbide coperte di lana dove dormire. Se non chiedo troppo, anche avere un bel libro non sarebbe male...tutto, pur di distrarmi da tutta la sofferenza che si nasconde dietro alle suntuose tende di quella che un tempo era la tua casa, ma che ora...è solo un freddo labirinto di mura spoglie e troppo abili a celare le urla di paura e dolore.
Mi chiedo spesso se tutto questo finirà mai, se tornerò mai ad assaporare il nettare divino della libertà, la mia immaginazione falsamente ottimista è la mia unica ancora di salvezza, il mio appiglio per non cadere nel baratro della follia. Ultimamente temo con estrema ansia di diventare pazzo, perdere la mia sanità, come credo con tristezza abbiano iniziato a fare i miei fratelli. Forse sono più forte di loro, o forse semplicemente sono il più ottimista. Aggettivo strano per descrivermi, ma in confronto a loro direi che è parecchio accurato.
Per oggi è tutto, cara Katyusha, scrivimi presto e dimmi come stai. Ti auguro di riprenderti completamente a breve, con affetto

Eduard Von Bock"

Il ragazzo lasciò uscire un lungo sospiro, appoggiando la schiena alla sedia e inclinando leggermente la testa all'indietro. Guardò le sue dita pallide e sottili macchiate d'inchiostro, piccole chiazze nere sulla pelle candida e liscia. Aveva sempre cercato di mantenere un certo riguardo verso il proprio corpo, prendendosi cura di esso il più possibile. Poteva considerarsi fortunato, dato che raramente era vittima dell'ira del suo "padrone", e il suo lavoro di "giornalista" personale di Ivan gli offriva la calma e la tranquillità di cui aveva bisogno. Era l'unico dei tre che aveva il diritto di uscire a fare compere, quindi a volte si concedeva qualche vizio.

Si alzò in piedi, il pavimento in legno scricchiolava sotto al suo peso, e sembrava aumentare con ogni passo che faceva. Mise la lettera in una vecchia scatola di metallo, la vernice gialla era scrostata e lasciava intravedere chiazze di ruggine scura.
Poi, percorse un lungo corridoio dalle pareti bianche e spoglie, dirigendosi verso il salotto. La stanza era ampia, le pareti di un color bianco sporco, le pesanti tende bordeaux lasciavano trapelare solo pochi intrepidi e freddi raggi di luce, che illuminavano un breve settore del pavimento. Al centro vi era un divano del medesimo colore delle tende, davanti a quello un piccolo tavolo da tè decorato da un triste centrino in pizzo bianco, un vaso di fiori contenente un paio di fiori secchi e una bottiglia vuota.
Eduard prese in mano la bottiglia, guardandola con attenzione. Era grande, senza alcuna etichetta; il vetro leggermente scheggiato attorno all'imboccatura. Avvicinando il naso al collo della bottiglia, sentì subito l'odore pungente dell'alcol. Sospirò e rispose la bottiglia dove l'aveva trovata. Si guardò rapidamente intorno, per poi buttarsi di peso sul divano. Chiuse gli occhi, si tolse gli occhiali e inclinò la testa verso l'alto. Guardò il soffitto, lo fissò come se fosse la più bella delle opere d'arte. E una lacrima tiepida gli rigò il viso chiaro e stanco.
-Eduard, vieni di sotto?
Il ragazzo abbassò lo sguardo verso l'interlocutore, si asciugò gli occhi con la manica e rimise gli occhiali.
-Raivis, che ci fai qui? È tardi, va a letto.
-Tolys non si sente bene. Mi ha detto di chiamarti.
Eduard si alzò, e, a passo rapido e leggero, attraversò un altro corridoio fino ad arrivare a una breve scalinata. Scese le scale immerse nel buio e aprì una pesante porta in ferro. La stanza era di medie dimensioni, spoglia se non per un armadio e tre brandine. Le pareti erano metalliche, vuote, fredde e cupe, scure. Su una delle brande vi era un ragazzo disteso, tremava avvolto nelle coperte. Aveva i capelli lunghi appiccicati al viso dal sudore, la pelle pallida era arrossata nella zona del naso e delle guance. Gli occhi chiari erano lucido e stanchi, cerchiati da profondi occhiaie scure. Eduard si avvicinò a lui e gli mise una mano sulla fronte.
-Scotti.
-Lo so...
-Devi riposare.
-Non ci riesco.
-Tolys.
-Sono quasi le sei, dobbiamo svegliarci fra poco.
-Tu oggi non lavori.
-Devo lavorare. Oggi viene la signorina Arlovskaya.- disse, e un lieve sorriso si dipinse sulle sue labbra sottili.
-Tolys- disse il fratello con tono quasi autorevole -quand'è che la smetterai di farti trattare male da tutti?
Il ragazzo non rispose, guardò il soffitto con gli occhi semiaperti quasi fosse in trance.
-A volte penso che ti piaccia.
-Huh?
-Ti piace soffrire, il dolore, ti piace chi ti tratta male.
Tolys alzò la schiena, si mise a sedere e guardò negli occhi il fratello.
-Che altro posso fare? Posso ribellarmi, certo, e se sono fortunato mi uccideranno. Mi sono adattato alla mia condizione, ho imparato a soffrire in silenzio, a nascondere le cicatrici. Tutto quello che voglio è una vita normale...
-E quello che vogliamo tutti, ma...
-Ma non lo possiamo ottenere. - disse, e si distese di nuovo raggomitolato nelle coperte.
-Tanti auguri fratellone. - sussurrò appena Eduard, per poi infilarsi nel suo letto.

Symphony Lane //  Hetalia, Unione sovieticaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora