Capitolo 60

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Erano mesi che Mina e Colin non rimanevano da soli in una stanza così piccola. L'ultima volta, tra loro c'era solo un amore nascente e un'irrefrenabile voglia di scoprirsi. Erano successe così tante cose, in quel poco tempo, che sembravano passati anni. Che non sembravano nemmeno più loro. Non c'era mai stato imbarazzo tra i due, nemmeno all'inizio, quando discutevano sulla qualunque. Nemmeno quella notte al cimitero, quando lei aveva scoperto dello spaccio e lui l'aveva sgridata per la droga.

In quel momento, mentre il sole brillava alto entrando indisturbato dalla finestra chiusa, illuminando l'intera stanza, sembravano due estranei, eppure sentivano di appartenersi. In tutti e due impazzava la voglia di scusarsi, la vergogna per non essersi capiti, i sensi di colpa per non aver fatto di più. Erano adolescenti, forse fare di più non era compito loro. Ma si erano migliorati a vicenda, e sapevano di poterlo fare ancora.

«Mi dispiace». La voce di Mina si fece spazio timidamente nella stanza, come un soffio di vento caldo e rassicurante. Colin la fissò, chiudendo appena gli occhi e scuotendo il capo. Sarebbe intervenuto per dirle che non era colpa sua, che non doveva scusarsi. Mina ne era certa, e bloccò quelle frasi sul nascere.

«Non dirmi che non serve. Non è vero, e lo sai» continuò. «Serve a me e serve a te. Quindi sì, mi dispiace e ti chiedo scusa. Per averti messo al secondo posto, per aver avuto paura, per non essermi fidata di te abbastanza. Scusa perché tu mi hai resa felice e io non sono stata brava a meritarmelo. Scusa perché ho preferito la strada più semplice. Scusa per aver messo l'apparenza davanti a tutto». Colin annuì, accettando in silenzio quelle scuse e aspettando, come sempre, Mina. Sapeva che la ragazza avrebbe parlato ancora, e le lasciò tutto il tempo necessario per riflettere. Per scegliere con cura ogni parola.

Mina buttò un occhio fuori dalla finestra. Riconobbe Lip e Micol, stretti l'uno all'altra. Sorrise, felice per loro, auspicando di poterli imitare presto. Respirò, decise di non mettersi fretta. Era il loro momento, era giusto dargli l'importanza che meritava.

«Andrò in terapia», riprese. «Ho parlato con una dottoressa, una nutrizionista, che mi aiuterà per l'anoressia». Era la prima volta che diceva ad alta voce quella parola. Ci aveva sempre girato intorno, come se dirla avrebbe reso tutto troppo reale. Ma era reale, e non voleva più scappare dalla vita. Ammettere il problema era il primo passo verso la guarigione, così le aveva ripetuto più volte la dottoressa Brown. E lei voleva guarire. Voleva stare bene.

«Andrò in terapia anche per la dipendenza» lo rassicurò. «Non è una dipendenza fisica, mi hanno spiegato. Non so bene cosa fossero quelle pillole, ma il medico ha detto che non sarà difficile uscirne. Non le prendevo da molto, e il mio corpo non si è abituato. Devo sconfiggere la dipendenza psicologica, però. Perché mi facevano stare bene, mi rendevano felice... o, meglio, mi illudevano di esserlo. E mi aiutavano a non mangiare, sai... il senso di fame spariva completamente... quindi, insomma... mi aiutavano» balbettò le ultime parole, puntando lo sguardo al pavimento, leggermente in imbarazzo.

Non doveva vergognarsi. Non doveva vergognarsi. Forse avrebbe dovuto scriversi quel mantra sulla mano, per averlo sempre a portata di occhi.

«Sono felice che tu stia bene» intervenne Colin, un nodo in gola che rendeva la sua voce, di solito ferma e pacata, tremolante.

«Mi sento in colpa» ammise a fatica e, come successo poco prima, a nulla sarebbero servite le parole di Mina. Si sarebbe sentito in colpa comunque, quindi lei gli restituì la stessa libertà che già lui le aveva lasciato, facendolo continuare. «Io so che non sei come tutti ti dipingevano. So che non sei come tu stessa volevi dipingerti. So che quello era solo uno stupido errore, ma l'orgoglio ha preso il sopravvento. Ero arrabbiato: non con te, ma con l'idea che avevo di te. Nonostante tutto, per me eri perfetta, e vederti sbagliare mi ha fatto uscire dai binari. Non volevo che gli altri avessero ragione su di te. Volevo che fossi come ti immaginavo nella mia testa, eterea e perfetta. Sapevo che non lo fossi, nessuno lo è, ma dopo il nostro inizio burrascoso, avevo scoperto una nuova Mina, che mi piaceva tanto»

«E ora non ti piaccio più?» chiese lei amareggiata. Lui le sorrise, avvicinandosi e accarezzandole la mano affusolata.

«Non hai mai smesso di piacermi, anche quando combattevo quel sentimento... non volevo mi piacessi, ma non è mai stata una mia scelta» confessò.

«Che sentimento?» chiese Mina, quasi retorica. Lo sapeva, anche se non se lo erano mai detti. Lo aveva sempre saputo, fin dalla prima volta. Fin dal loro primo scontro. Era ben consapevole dei suoi sentimenti, ed era ben consapevole dei sentimenti di Colin.

«Ti amo» disse lui, con una leggerezza che la fece stare bene. Lei lo sapeva, ed era certa che lo sapesse anche lui.

«Io...» arrancò Mina. Colin si avvicinò ancora un po'. Ormai erano fronte contro fronte. Quel respiro che per mesi le era mancato, era tornato ad avvolgerla. Colin le strinse la mano, rassicurandola.

«Non devi dire niente. Se non sei pronta, non devi rispondere. Non l'ho detto per avere una risposta» sussurrò. Mina sorrise. Lui era lì. Ancora. Era sempre stato lì, nonostante tutto. E, per l'ennesima volta, era pronto ad aspettarla. Continuava a regalarle il tempo. Lei, che era sempre stata abituata ad avere tutto, capì quanto fosse importante il tempo. Quanto fosse prezioso quel regalo.

Una tossetta finta interruppe quel momento. Mina aprì gli occhi, sorprendendo il padre fermo sulla porta e guardandolo in modo truce. Carlos ridacchiò innocente, spostando poi lo sguardo su Colin e invitandolo a raggiungerlo fuori dalla stanza. Colin deglutì a fatica. Nemmeno di Jim Nelson aveva mai avuto così tanta paura. Ad aspettarlo, oltre la soglia, c'era il padre della ragazza che amava.

«Potrei morire adesso, per mano di tuo padre», balbettò a Mina, «quindi ricorda che ti amo e che è stato bello». La ragazza rise di gusto. Il padre era un bonaccione, e aveva già manifestato accondiscendenza per Colin. Tuttavia, non tranquillizzò il ragazzo, che uscì dalla stanza zoppicando e col cuore in gola.

«La ami davvero?» chiese subito Carlos. Le braccia incrociate al petto e lo sguardo severo, tipico di qualsiasi padre di un'adolescente davanti al ragazzo della figlia.

«S-sì, signore. Sì» disse, cercando di essere convincente. La amava davvero, ma gli occhi di Carlos lo mettevano in soggezione.

La notte precedente, mentre aspettavano terrorizzati quel medico che sembrava non voler uscire mai, i loro sguardi si erano incontrati più volte. Colin aveva passato quelle ore in disparte, da solo. Un po' perché aveva davvero poca voglia di parlare e interagire con altri, un po' perché era certo che Carlos sapesse tutto. E che lo incolpasse. L'uomo, tuttavia, non lo aveva mai incolpato, e i tirati sorrisi pieni di conforto che gli aveva rivolto in quella nottata apparentemente infinita, avrebbero dovuto tranquillizzare Colin, se solo fosse stato più perspicace.

«Lo so» aggiunse Carlos poco dopo, sciogliendo le braccia e colpendo dolcemente una spalla del ragazzo, in una sorta di pacca impacciata.

«Davvero?» chiese Colin, stupito.

«Ho visto Mina con Andrew per anni, e nemmeno all'inizio aveva quegli occhi luminosi che le hai regalato tu. Si può amare così tanto solo qualcuno che ricambia il tuo amore» asserì l'uomo dolcemente.

«Ho commesso degli errori» ammise Colin, abbassando il capo.

«Chi non li commette? Siete adolescenti, avete tutto il diritto di sbagliare. Ma», puntò un dito dritto al volto del ragazzo che istintivamente indietreggiò, «non farla soffrire. Rispettala, sii onesto con lei e amala. E, se l'amore dovesse finire, diglielo». Colin annuì convinto. Voleva migliorare, per se stesso e per Mina. Voleva starle accanto, voleva amarla come meritava.

In un impeto di gioia e gratitudine, si fiondò tra le braccia di Carlos che, un po' stupito, lo accolse ricambiando l'abbraccio. Non si conoscevano, eppure entrambi condividevano la stessa vittoria. Amavano Mina, in modi tanto diversi eppure così affini. E si sarebbero impegnati come, erano certi, avrebbe fatto lei. 

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