Time

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Perhaps you're smiling now
Smiling through this darkness

*

Savino fece per controllare l'ora prima di infilare le chiavi nella toppa, poi si ricordò di non avere il telefono (né possedeva un orologio da polso, un oggetto che gli era sempre sembrato scomodo, oltre che inutile) ed ebbe un moto di frustrazione. Sapeva che i suoi genitori andavano sempre a letto presto e voleva ridurre al minimo la possibilità di incrociarli mentre rientrava in casa. Non aveva certo bisogno di ulteriori commenti su quello che era successo a cena.

Appoggiò l'orecchio alla porta e restò in ascolto. Nessun suono proveniva dall'appartamento. Era rimasto con Rebecca per un bel po' di tempo, ma non era ancora notte fonda: giudicò che potesse essere, forse, mezzanotte.

Aprì con circospezione la porta e scivolò in casa: tutte le luci erano spente. Nessuna voce si alzò per accoglierlo. Possibile (anzi, probabile) che sua madre o suo padre o entrambi fossero ancora svegli nel letto matrimoniale, tendendo le orecchie per aspettare il suo arrivo, ma finché i suoi non si sentivano in dovere di alzarsi per fargli la predica, tutto ok. Sperò che la mattina seguente non ne avrebbero più avuto voglia.

Percorse in punta di piedi il corridoio e, nel passare di fronte alla cameretta di Cecilia, vide una striscia luminosa alla base della porta chiusa. Si sentì pungere da un fastidioso senso di colpa: sua sorella faceva spesso fatica a dormire, specialmente quando succedeva qualcosa che la agitava — e non era difficile comprendere che cosa l'avesse agitata, quella sera.

Nella sua testa risuonarono nuovamente le parole che Rebecca gli aveva rivolto poco prima: Fai pace con Cecilia. Sono sicura che, anche quando litigate, lei pensa che sei il fratello più fico del mondo. Sei il suo eroe.

Savino esitò per qualche momento, poi bussò con delicatezza alla porta. Non ci fu nessuna risposta.

Forse si è addormentata con l'abat-jour accesa, pensò, e sbirciò dentro. Cecilia era stesa sul letto nel suo pigiama di Rocket Raccoon, con un cuscino dietro le spalle, intenta a studiare un massiccio volume enciclopedico sulle astronavi di Star Wars. Samantha Cristoforetti, come sempre, vegliava su di lei dalla parete.

"Psst! Cecia!" sibilò Savino. Sua sorella girò verso di lui le tonde biglie verdi dei suoi occhi (la fortunella aveva ereditato le iridi della nonna paterna — Savino doveva accontentarsi di un castano che si schiariva a tratti verso un color oliva) e lo fissò senza sorridere.

"Senti... scusa per prima," mormorò Savino, entrando nella stanza, chiudendosi la porta alle spalle e restando in piedi sulla soglia, a disagio. "A cena. Mi ero proprio scordato che dovevo farli io i piatti. Pure te però, non ti incavolare sempre, dai."

Cecilia non disse nulla, aggrottò le sopracciglia e drizzò lentamente il dito medio della mano destra, tanto per fargli capire cosa ne pensava del suo suggerimento.

Savino alzò gli occhi al cielo. "Eddai! Li faccio io domani, ok?"

"Settimana prossi. Tutta la..." iniziò sua sorella; poi si interruppe, strinse le labbra e ricominciò: "Facciamo a cambio tutta la prossima settimana," disse, scandendo lentamente le parole, come faceva quando si concentrava sul metterle nell'ordine giusto.

"Adesso te ne stai approfittando," protestò Savino. "Non dovresti almeno chiedere scusa per aver provato a menarmi?"

"No."

Meno male che sono il suo eroe. Savino si mise una mano in faccia. "Comunque li faccio domani, e facciamo a cambio la prossima volta che toccano a te. E basta. Ok?"

Cecilia strinse le spalle: doveva trattarsi di un cenno d'assenso. O almeno, ci andava abbastanza vicino. Savino fece per voltarsi e andar via.

"Sentiamo zia Ali, domani?" chiese Cecilia.

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