Capitolo Sedici

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Era l'ultimo giorno prima di tornare a scuola e nonostante avessi tutte le buone intenzioni di andare a parlare con mio padre, ogni giorno trovavo una scusa. Ed anche quella volta andò così. Mentre preparavo le valige ripensavo a come sarebbe stato bello se tutto fosse rimasto come era quando ero piccola. Io, la dodicenne casinista che amava gli sport da maschiaccio ma leggeva i libri tipicamente da ragazzina, mia madre che gestiva un piccolo bed and breakfast. Mio fratello che era cinque anni più grande di me, pronto per buttarsi in una carriera nel baseball e mio padre con la sua attività. C'era un rituale nella nostra famiglia, ogni domenica dopo essere andati a messa. Andavamo insieme in un parco poco fuori città, dove mio padre e Thomas provavano dei tiri ed io mi immischiavo sempre per avere la loro attenzione, mia madre preparava su quei vecchi tavoli da picnic il cibo e sembravamo davvero la famiglia perfetta. Era un sogno. Ancora non riuscivo a capire cosa accadde esattamente. Quale fu il momento preciso in cui il sogno diventò incubo. Forse era stato difronte ai miei occhi per molto tempo e non me ne resi mai conto. Mia madre all'inizio lo giustificava con il fatto che avesse ancora dei traumi da quando era più giovane ed era nell'esercito. Poi avevano scoperto che aveva un problema di salute e lo avevano rimandato a casa. Però con noi non si comportava male. Non lo avevo mai visto avere una crisi come Thomas. Ero sicura fossero tutte scuse, ma una parte di me credeva a quelle storie, perché era più facile che pensare che mio padre non era l'eroe che avevo sempre pensato che fosse, ma il cattivo che sarebbe stato pronto a fare del male a chiunque fregandosene dei danni collaterali. Peccato che quei danni collaterali eravamo io e Thomas.

Lui aveva semplicemente smesso di calcolarlo. Sapeva però che se lo avesse completamente ignorato oppure gli avesse risposto male, lui si sarebbe sfogato con la mamma e quindi cercava di essere controllato.

Il problema ero più io. Io glielo facevo notare come si stava comportando. Gli facevo notare i lividi della mamma, gli occhi rossi consumati dalle lacrime. Fu quando lo iniziai a chiamare per nome che sentii di non essere più sua figlia. E mentre Thomas, una volta diplomato partì, io e la mamma rimanemmo bloccate con lui. Avevo tante volte minacciato di denunciarlo anche se nessuno mi avrebbe creduto. L'ultima volta però lo filmai. Mi ricordo che tremavo all'idea che potesse scoprirlo, però lo feci e quando qualche giorno dopo si calmò andai da lui. Era colazione e lui si stava bevendo il suo caffè come ogni mattina. Gli portai il mio computer e lo aprii proprio mentre stava sorseggiando beato il suo caffè. Quando feci partire il video, sembrava non capire. Io ero in piedi vicino a lui. Tremavo ma non glielo feci notare. Lui appoggiò le tazze e guardò solo i primi cinque minuti.

"Che cos'è questo?" mi chiese con il suo vocione. Io chiusi il pc, ma rimasi in piedi.

"Questo è quello che sei stato con noi negli ultimi anni. Questo è il motivo per cui farai le tue valige e starai lontano dalla mamma e da noi. Lei non ha la forza di mandarti via, per questo lo farai tu, di tua spontanea volontà. Altrimenti lo farò vedere alla polizia e non sarà piacevole." Non ricordo con quale coraggio gli parlai in quel modo.

"Come ti permetti ragazzina!" disse alzandosi in piedi. La differenza di stazza era notevole e qualunque ragazza in quella situazione si sarebbe spaventata. Anche quando era pronto, con la mano sollevata a colpirmi in faccia.

"Fallo!- gli urlai- neanche quello mi fermerà Peter!"

Quando realizzò che l'avevo chiamato per nome, lui abbassò la mano e se ne andò. Le sue ultime parole a me furono "molto bene" e sentivo il suo disappunto in ogni singola lettere di quelle due parole.

La sera stessa parlò con mia madre e alla fine capirono entrambi che era meglio così. Non ho mai pensato di essere la causa scatenate del loro lasciarsi, ma non era giusto che fossero altri a perdere per i loro errori.

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