"Benvenuta da Eric's, in cosa posso esserti utile?". Cerco di ripulirmi le mani ma è tutto inutile, è questo che succede quando lavori senza guanti e per di più quando tocchi il motore, me lo dice sempre Eric. È come se le sue parole rimbombassero fastidiosamente nella mia testa perché so che, in fondo, ha sempre ragione.
Una ragazza, mentre si avvicina a me, con un gesto veloce tira giù gli occhiali e mi squadra dalla testa ai piedi senza curarsi che io me ne stia rendendo conto. Sembra sfacciata, decisa. Cammina mettendo in risalto il seno, avrà una seconda abbondante, mentre gioca a far girare e rigirare le sue chiavi tra le dita. Quel suono si confonde con il flex che sta usando lì in fondo Eric. "Credo di aver forato... Una ruota". Si gira divertita indicandomela, è quella a sinistra della parte posteriore. "Non ho idea di cosa fare, penso che questo sia il posto giusto...". Si guarda attorno spaesata.
"Sì, sei esattamente nel posto giusto. Dammi qualche minuto e la tua auto sarà come nuova".
La ragazza annuisce continuando a masticare fastidiosamente a bocca aperta un chewing-gum spostandolo da una parte all'altra della mascella.
Prendo il crick e mi dirigo verso la Fiat 500 rosa parcheggiata proprio all'ingresso dell'officina.
Non impiego nemmeno cinque minuti a fare il lavoro che la tipa mi guarda quasi con ammirazione. "Wow! Non credevo fosse così semplice...". Mentre mi sollevo me la ritrovo faccia a faccia. "Corinne", mi porge la mano, "È il mio nome".
"Bene, Corinne, non vorrei sporcare le tue mani da principessa", la supero ignorando il suo gesto, "Sono 25 dollari, per te faccio 20".
Mi guarda delusa e, quasi con il broncio, apre la sua minuscola borsetta a tracolla, sempre rosa, e tira fuori i soldi. Me li porge distaccata e mi dà subito le spalle per andarsene, offesa.
Tiro fuori dalla tasca il telefono, sono quasi le tre, tra un'ora devo essere al Northern Manhattan Rehabilitation and Nursing Center.
"Ci penso io al resto, puoi andare. Ma prima mangia il sandwich che c'è in frigo, ne ho preso uno anche per te prima al Greenwich's café". Eric mi fissa squadrandomi quasi divertito, poi si gira e torna a lavoro scuotendo la testa.
"Che c'è?".
"Dici a me?".
"Non fare il finto tonto Eric, dimmi cosa c'è di così divertente".
"Nah, niente di importante".
"Eric...".
Poggia il flex sul pavimento e viene verso di me come se non aspettasse altro. "Come hai potuto far uscire quel bel culo da qui?!".
"Non capisco...".
"Non dirmi che non l'hai notato. Ho visto come la guardavi, andiamo!".
"Sì, forse, e quindi?".
"Pensavo che forse dovresti un po' integrarti...".
"Sul serio?! Sai benissimo perché sono qui e che non resterò per molto".
"Se magari trovassi qualcuno che ti faccia cambiare idea...".
"Sto bene così Eric, non preoccuparti per me. Tu dedicati alla tua ragazza. Come si chiamava? Elisabeth... Emily...?".
"Emma, si chiama Emma, e non è ancora la mia ragazza".
"Ah già... Emma".
"Lì fuori da qualche parte ci sarà la tua Emma, devi solo impegnarti a trovarla. O vuoi dirmi che ti va bene scopare per svegliarti il giorno dopo senza nemmeno ricordarti con chi sei stato?".
"È esattamente quello che mi importa. Adesso vado a farmi una doccia".
"Ehi Chris...", adesso sembra più serio o almeno credo. "La mia offerta di condividere il mio appartamento è ancora valida".
"Grazie amico ma hai già fatto tanto per me. Questa è la mia casa, almeno per ora"."Il suo nome?".
"Christopher, Christopher Lewis. Sono qui per Martha O'Connel".
"Attenda, prego". L'infermiera guarda nel registro delle visite, poi alza lo sguardo verso di me sorridente e mi fa cenno di seguirmi.
Entriamo passando per una grande porta e, mentre cammino, mi focalizzo su quello che ho attorno. Quel senso di tristezza e perdizione che mi ha accompagnato per gran parte della mia vita si rifà vivo dentro di me. Degli anziani passeggiano accompagnati da infermieri, alcuni indicano qualcosa fuori le grandi vetrate ai lati del corridoio, altri si lamentano di qualcos'altro.
"Quello lì è mio nipote... Sì, è proprio lui!". Un'anziana quasi corre verso di me ma quando si avvicina il suo sorriso si spegne di colpo, "Scusami figliolo, ti ho confuso per mio nipote".
"Signora Grayson, andiamo, venga con me a fare una bella camminata". L'infermiera mi sorride come se volesse quasi scusarsi mentre la prende per mano.
"Quel ragazzo è proprio bello come mio nipote... Sai quando verrà mio nipote?". La sua accompagnatrice la porta via con sé alludendo ad altro come se volesse distrarla da quel pensiero. Forse perché il nipote non verrà mai.
"Mi segua signor Lewis, da questa parte", l'infermiera mi indica una porta. Non appena la apre scorgo un giardino bellissimo. Qui è pieno di verde, di fiori, di piccole fontane dalle quali escono degli schizzi d'acqua. Sento un improvviso senso di pace che mi investe, potrei quasi dire che stare qui mi fa bene. "Ecco, sua madre è lì in fondo".
Seguo la sua indicazione e la vedo. È seduta nello stessa posizione dove l'ho lasciata l'ultima volta che l'ho vista, la prima volta dopo vent'anni. Mi avvicino, lei non scosta lo sguardo, è concentrata a guardare due piccoli canarini che si picchiettano a vicenda sul ramo di un albero qualche metro lontano da noi. Afferro la sedia a rotelle sulla quale è seduta e la porto più vicino ad una piccola panca sulla quale posso sedermi. Nemmeno adesso che sono proprio di fronte a lei incrocia il mio sguardo. Ha sempre gli occhi puntati su altro, mai su di me anche se sono sicuro che riesce a capire ogni singola parole che le dico, nonostante non risponda. I dottori mi hanno detto che è da vent'anni che non proferisce parola, è da vent'anni che è su quella sedia a rotelle. Dopo quella notte la sua vita è andata a puttane, come la mia del resto.
"Mamma, sono Chris, sono qui. Ti ricordi? Ci siamo visti qualche settimana fa...". Credono che resterà in questa condizione in maniera indefinita, specialmente dopo l'infarto del mese scorso. "Sono sicuro che riesci a sentirmi... Vorrei che sapessi che a breve partirò per l'Europa, non so ancora dove andrò ma con i soldi che ho da parte e con quelli che ho guadagnato lavorando con Eric riuscirò a combinare qualcosa lì in giro". Non so nemmeno perché sto ancora qui a parlare, non so nemmeno se mi stia ascoltano o se mai capirà quello che le sto dicendo. "Vorrei che tu sapessi che sono felice che adesso tu stia bene e che Eric mi aggiornerà sempre sul tuo stato di salute venendoti a trovare di tanto in tanto". Il mese scorso Eric mi telefonò avvertendomi di quello che le era successo. Presi il primo aereo da Madrid e tornai il prima possibile. Lasciai il lavoro part-time da barista che avevo trovato lì, ricordo il capo che si infuriò perché stavo rinunciando al lavoro senza preavviso. Mi disse che non dovevo mai più mettere piede in Spagna. Ma glielo devo, a lei devo tutto. L'ultima volta che l'ho vista avevo 11 anni. Ricordo che era molto buona con me, ricordo di chiamarla "la mamma più buona e bella del mondo". Ed è un po' così per tutti i bambini no? La propria madre è la migliore che possa esistere nel mondo. Trascorreva molto tempo con me a giocare, con me e con Steph. Io e mia sorella eravamo la sua ragione di vita, dedicava tuti i giorni per tutto il giorno a crescerci ed educarci. Ricordo i suoi capelli biondi, mi raccontava sempre che da piccola la chiamavano "boccoli d'oro". Adesso se la guardo vedo solo dei capelli grigi, spenti, così come il suo viso. Ricordo il suo compleanno, era uno dei giorni più belli insieme a quello mio e quello di mia sorella. Aveva la possibilità di chiamare un intero catering per preparare tutto ma, invece, amava cucinare da sola per cento persone. Faceva delle splendide torte, era la migliore in questo. A volte le faceva su commissione per qualche festa di compleanno nel quartiere. La mia famiglia non ha mai avuto problemi di soldi, lei non lo faceva per una questione economica, ma per passione. Oggi mia madre ha 55 anni ma dimostra almeno dieci anni in più. Il suo viso è segnato dalle rughe, la sua pelle non ha più la stessa luce di una volta. Ricordo quando si metteva accanto a me per addormentarmi ed io mi perdevo a poggiare le mie dita sul suo viso delineando le sue forme, era perfetto. Ricordi, ricordi e ancora ricordi. L'unica cosa preziosa che ho nella vita sono i ricordi. "Per qualsiasi emergenza lascerò il mio numero e... Ti prometto che verrò a trovarti".
"Signor Lewis?". Un tizio col camice bianco si avvicina a me. Leggo il nome sulla targhetta, Dott. Williams. Indossa gli occhiali e sembra un tipo piuttosto serio. Credo che abbia più o meno la mia età. "Sono il dottore che adesso si occupa dello stato di salute di sua madre. Se ha due minuti avrei bisogno di parlarle".
Mi alzo dandole un'ultima occhiata, ha lo sguardo fisso sullo stesso punto da almeno mezzora, credo che non l'abbia distolto nemmeno per un secondo.
Il dottor Williams mi porta al piano di sopra attraverso delle rampe di scale esterne all'edificio della casa di cura. Entriamo attraverso una porta di emergenza, ed il suo studio è proprio lì alla destra dell'entrata. "Prego, si accomodi".
Mentre mi siedo dall'altro lato della scrivania mi focalizzo sui numerosi attestati appesi alla parete proprio alle spalle della sua poltrona. Deve aver studiato parecchio il dottorino, niente male.
Mentre si siede ferma con una mano il pendolo di Newton che continua ad oscillare da un lato all'altro. Poi, apre un cassetto dal quale tira fuori una specie di cartella con su scritto il cognome di mia madre. Dopo averla sfogliata per qualche secondo alza lo sguardo verso di me sorridendo. "L'ultima volta che è stato qui non ho avuto l'occasione di presentarmi e di discutere con lei delle condizioni di sua madre. Come ben sa, sua madre ha subito un'operazione d'urgenza per l'impianto di un bypass aorto-coronarico. Crediamo che con questo possiamo stare tranquilli ma... So che questa è la seconda volta in vent'anni che viene a trovare sua madre. Ecco, adesso che lei è qui, vorrei invitarla a restare più tempo".
"Che intende dire?".
"Che sua madre ha bisogno di lei signor Lewis. A quanto leggo e a quanto so lei è l'unico superstite della sua famiglia. E forse è l'unico modo per poter aiutare sua madre".
"Aiutare mia madre in cosa?".
"Il dottor Jones si è ritirato giusto qualche settimana fa lasciando a me i suoi pazienti. Mi ha sempre parlato di sua madre come un soggetto vulnerabile, un soggetto che ha bisogno di aiuto. È come se l'anima di sua madre fosse in trappola dentro un corpo che non le appartiene. È come se ci fosse qualcosa che la tiene lì, ferma. È come se a lei convenisse di restare in quella situazione, quasi per proteggersi, per non affrontare il mondo reale".
"Dottore vada al punto, la smetta con i giri di parole".
"Signor Lewis, per aiutare sua madre dobbiamo tornare a quella notte. E per tornare a quella notte ho bisogno di lei. Se lei mi dà il consenso... Io credo che ci sia ancora qualcosa da fare. So che ci hanno già provato per molto tempo ma sono sicuro di poterci riuscire...".
"Cosa? Di che diavolo sua parlando?!". Mi sento le mani sudare freddo. Mi alzo d'impulso, è come se mi mancasse l'aria di colpo qui dentro.
"La prego, ascolti quello che ho da dirle...".
"Non ho bisogno di uno strizzacervelli, né tanto meno ne ha bisogno mia madre. Quello che dovreste fare qui dentro è occuparvi dei vostri pazienti, non di quello che non vi compete".
"Si sbaglia signor Lewis, i miei pazienti hanno quotidianamente bisogno di supporto psicologico. Ed io sono qui per questo. E credo che non solo loro".
"Mi sta prendendo per pazzo adesso?!".
"Sto solo dicendo che sua madre è in quello stato da vent'anni. Non si alza da quella sedia rotelle quando potrebbe tranquillamente camminare, a stento mangia servita da una delle nostre infermiere quando invece potrebbe farlo da sola. Non parla, non ha mai proferito parola in tutto questo tempo, quando invece avrebbe potuto benissimo farlo! Si chieda perché! È ora di affrontare quello che è successo quella notte o, forse, è il momento di capire se c'è stato dell'altro. Solo così c'è una possibilità per permettere a sua madre di riprendersi la sua vita!".
"Mia madre è in quelle condizioni per colpa di mio padre! Mia madre si è risvegliata da un coma di dieci giorni dopo un forte trauma cranico causato da mio padre! E lei mi chiede di tornare a quella notte?! Lei vuole capire cosa è successo davvero quella notte?". No, non posso tornare indietro, non adesso, non di nuovo. Non posso fare questo a me stesso. "È successo esattamente tutto quello che sa. Non c'è altro da sapere".
"Signor Lewis...".
"No! Non dica altro!".
"Perché è tornato dopo vent'anni? Sì, è tornato grazie al suo amico che l'ha avvertita dell'infarto di sua madre ma... Cos'è che l'ha allontanata? È quello che è successo con suo padre, lei sa che non mi sto sbagliando così come sa che non è solo sua madre ad aver bisogno di aiuto".
Quelle parole entrano dentro di me come un fulmine a ciel sereno. Mi scuotono una e più volte. Mi sento come se mi fossi scolato una bottiglia di Bourbon. Forse adesso ne avrei proprio bisogno. Devo andare, devo andare il più lontano possibile da qui. "Si occupi di mia madre, il resto lo lasci al passato".
"Bene". Il dottor Williams poggia le spalle sulla sua poltrona e inizia a muoversi quasi nervosamente da una parte all'altra. "So che ha lasciato detto che tra qualche settimana partirà...". Prende la piccola pezza per pulire i vetri degli occhiali. La passa da una mano all'altra, come se non sapesse nemmeno lui cosa farne di essa.
"Sì, appena uscirò di qui lascerò il mio numero alla reception. Potete contattarmi in qualsiasi momento, senza problemi. Adesso, se vuole scusarmi...". Mi dirigo verso la porta e sono sulla soglia per uscire.
"Signor Lewis". Quando mi volto il dottore è alle mie spalle. "Ci pensi".
STAI LEGGENDO
OLTRE OGNI COSA
FanfictionSiete innamorati di Can Yaman? Bene! Eccovi serviti una storia dedicata a lui. Il Chris di cui vi parlerò è interamente ispirato a lui. Chiudete gli occhi e catapultatevi in quest'avventura facendovi trasportare. Perché è proprio questo la lettura...