La pressione scendeva. Ad un tratto il suo battito cardiaco rallentò fino a fermarsi del tutto. ll suo volto cambiò improvvisamente colore. Immobile sul letto, il respiro congelato, gli occhi spalancati: tutto ciò che rimaneva di lui era un corpo senza vita.
La bambina lo osservava con uno sguardo innocente, ignara di quello che stava accadendo. Avrebbe potuto chiamare aiuto, avrebbe potuto urlare, piangere, disperarsi, ma non lo fece. I suoi occhi azzurri rimasero fissi a guardare il viso dell'uomo spegnersi lentamente. Fu il suo nome a riportarla alla realtà.
"Eva!"
La bambina non rispose. Corse fuori dalla porta, con il cuore in gola.Era una giornata d'autunno, una delle tante: umida, grigia, monotona. Gli alberi erano avvolti da una nebbia spettrale, come se il mondo fosse stato stregato da un improvviso incantesimo. Il cielo era screziato da nuvole d'argento e la leggera luce del sole illuminava dolcemente il viso di Eva, seduta sul davanzale della finestra mentre sfogliava le pagine di uno dei suoi romanzi preferiti, Orgoglio e Pregiudizio. Quanto avrebbe desiderato tornare indietro nel tempo e vivere ancora in quell'epoca ai suoi occhi così affascinante! Quando sfogliava le pagine di un libro accadeva qualcosa di straordinario: per un attimo non era più padrona del suo corpo, era come se la sua mente avesse solcato una linea di confine immaginaria. Era una sensazione così strana, ma allo stesso tempo così incredibilmente naturale. Le piaceva nascondersi dietro quelle infinite pagine di carta. Si sentiva al sicuro. Gli imprevisti, le difficoltà, gli ostacoli della vita reale sembravano ormai distanti e finalmente poteva ricominciare a respirare. Tuttavia, bastava chiudere il romanzo per percepire di nuovo la pressione addosso, i brividi a fior di pelle, il senso di colpa che la divorava dall'interno.
Erano trascorsi nove anni e la ferita sul suo petto non si era ancora rimarginata. Continuava a guardare con gli occhi di una bambina di dieci anni il viso di suo padre inghiottito dall'oscurità. E, finalmente, aveva deciso di andare avanti: sarebbe partita, sarebbe fuggita da quel varco temporale che sembrava ripetersi all'infinito nella sua mente, impresso per sempre nella sua memoria. Avrebbe smesso di essere prigioniera dei suoi ricordi, sarebbe evasa da quel paese nascosto nella montagna, avrebbe smesso di vedere lo sguardo spento di sua madre, di udire le voci sul suo conto. Sarebbe partita. Roma l'aspettava: una grande città, una città piena di opportunità. Forse svegliarsi la mattina con il cinguettio degli uccelli le sarebbe mancato, così come la gioia della sua sorellina nel vederla tornare a casa, il profumo dell'erba appena tagliata, gli immensi prati fioriti. Scosse la testa, cercando di non perdersi nei suoi ricordi. Aveva giurato di non abbandonarsi alle sue emozioni. Aveva promesso che non avrebbe provato più nulla. Doveva mantenere il controllo su se stessa. Non voleva soffrire ancora una volta, desiderava solo andare avanti.
Nel silenzio della sua camera assaporò l'aria pura dopo un intero pomeriggio di pioggia. L'unico rumore quasi impercettibile era il ticchettio dell'orologio sul comodino. Era un suono lieve, ma ad ogni rintocco il battito cardiaco di Eva iniziava ad accelerare, sempre di più, sempre più velocemente. E all'improvviso la ragazza si ricordò: era in ritardo. Il treno sarebbe partito senza di lei. Era davvero pronta? Era davvero disposta a cambiare la sua vita? Innumerevoli interrogativi viaggiavano nel vortice dei suoi pensieri, impedendole di riflettere chiaramente. Si guardò intorno: si sentiva disorientata, come se fosse smarrita all'interno di un labirinto quando in realtà era ancora al sicuro tra le mura della sua accogliente camera da letto. Una sola preoccupazione balenò nella sua mente nella frazione di un secondo in cui una stella cadente sfreccia nel cielo notturno: raggiungere la stazione. Balzò in piedi per poi perdere l'equilibrio ed inciampare nella valigia ancora aperta sul pavimento. Frastornata e ancora più imbarazzata per la sua stessa goffaggine, prese un bel respiro, chiuse il bagaglio, infilò il primo paio di scarpe a portata di mano e si precipitò fuori dalla porta. Per fortuna l'auto del tassista era già di fronte, pronta a partire. O almeno così sembrava.
Ma fu quando Eva entrò in macchina che tutto cominciò.
"Salve, sono diretta alla stazione. Vado di fretta" disse lei, sistemandosi nervosamente alcune ciocche di capelli dietro le orecchie. L'uomo alla guida sembrava un fantasma, un corpo inerte, immobile sul sedile. Eva si schiarì la voce, fingendo una tosse improvvisa per attirare la sua attenzione. Quando gli occhi della sagoma misteriosa guizzarono sui suoi rimase pietrificata. Erano rossi di sangue. Pareva che lo sconosciuto non avesse chiuso occhio quella notte ed Eva si chiese inutilmente il perché.
"Sei... sei sicura?" sussurrò l'uomo, battendo i denti. Il suo tono di voce era esitante, sommesso e a tratti inquietante. Una ruga profonda si faceva strada sul suo viso, tagliandogli la fronte a metà. Iniziò a mangiarsi le unghie, a strofinare le mani tra loro ossessivamente. Eva aggrottò le sopracciglia, insospettita da un comportamento così bizzarro, pose veramente a se stessa quella domanda. Poi annuì, sperando che l'autista mettesse finalmente in moto il veicolo.
"Potrei accompagnarti in un altro posto..." insisté l'uomo ancora una volta. Eva scosse la testa, confusa. Era come se quelle parole lottassero per appropriarsi della sua mente, rimbombando più volte nelle sue orecchie.
"Signore, ho davvero bisogno di arrivare alla stazione".
Dopo interminabili minuti di silenzio, Eva udì il rumore del motore e tirò un sospiro di sollievo, forse troppo presto. L'auto iniziò ad avanzare lentamente per poi prendere velocità all'improvviso. Imboccò un vicolo stretto e buio, pieno di fossi, una via che Eva non conosceva. Chiuse gli occhi. Quando li riaprì, il volto dell'uomo sembrava essere cambiato all'improvviso: era come se fosse posseduto, ansioso di andare più veloce. D'un tratto il sedile iniziò a muoversi su e giù, mentre l'auto oscillava e il tassista aveva gli occhi fissi nel vuoto. Sembrava che non stesse guardando la strada.
"Rallenti!" gridò Eva, in preda al panico. Si intimò di restare calma, di non mostrare il suo spavento improvviso. Non doveva. Nessuno doveva leggerle in faccia le sue emozioni.
L'autista frenò di colpo, lasciandola senza fiato. Eva aprì la portiera e corse, corse, più velocemente che poteva, verso il vuoto, verso il nulla più totale.La bambina corse fuori dalla porta, con il cuore in gola. Si prese il viso tra le mani e pianse. Le lacrime le scivolarono sul volto come le gocce di pioggia accarezzano le foglie degli alberi. Non voleva più provare emozioni. Non voleva tornare in quella stanza e piangere. Non voleva...
Eva scosse la testa, mentre il caos dei suoi pensieri diventava sempre più opprimente, sempre più soffocante. Dove si trovava? Cosa era successo? Provava la vaga sensazione di essere in ritardo, in ritardo per qualcosa, qualcosa che non riusciva a ricordare.
All'improvviso scorse una macchia gialla in lontananza, un punto luminoso che veniva nella sua direzione. Quando riuscì finalmente a mettere a fuoco l'immagine, si accorse che era una ragazza, all'incirca della sua età, con il sorriso stampato sul volto.
"Dove stai andando?" chiese lei in tono allegro. Ed ecco che la risposta balenò nella mente di Eva: era come se avesse la frase pronta per ogni evenienza, come se ci fosse costantemente bisogno di ricordarlo...
"Alla stazione, devo partire".
Gli occhi della ragazza si illuminarono e roteò su se stessa compiendo un salto finale.
"Oh... quanto amo viaggiare!"
Rise. Era una risata innocente, pura, genuina, che sapeva di estate e di felicità.
"E dove andrai? Sarà bello? Verrà qualcuno con te? Sei emozionata?"
Le sue domande iniziarono di nuovo a riecheggiare nella mente di Eva, confondendola ulteriormente, addirittura soffocandola. Chiuse gli occhi, mentre la voce squillante della ragazza svanì d'un tratto. Quando li riaprì era sola. E, ancora una volta, non sapeva dove si trovasse.
Ricominciò a camminare, sforzandosi di ricordare, con la costante sensazione di essere di fretta, di avere i minuti contati. Ed ecco che un'altra figura sbucò dal nulla, avvolta nella fitta nebbia di quella strana mattina di ottobre. L'ombra non si muoveva. Magari era solo frutto della sua immaginazione? Eppure Eva era sicura di aver visto qualcosa o qualcuno avanzare verso di lei. Pochi istanti dopo ne ebbe la conferma. Udì dei singhiozzi, dei sussurri e dei rintocchi inquietanti. Sembrava il ticchettio di un orologio. Eva sapeva di essere in ritardo, ma non ricordava.
"Scappa" sibilò una voce che la fece sobbalzare.
"Torna indietro" proseguì il suono sibilante che proveniva dalla nebbia.
"Fuggi".
Ad un tratto la voce divenne più forte, le parole più chiare.
"Non è la scelta giusta".
All'improvviso la figura nera fu a pochi centimetri dal suo viso. Era così vicina che Eva poteva persino percepire il suo respiro affannato sulla sua stessa pelle. Poi l'ombra indietreggiò di colpo e finalmente incrociò i suoi occhi. La scrutavano terrorizzati. Eva non capiva. Chi era quella figura irriconoscibile? Che cosa voleva da lei? E, di nuovo, dove si trovava?
"Vai via" insisté di nuovo la sagoma, questa volta con voce più cupa.
"Sei ancora in tempo".
Quella semplice frase di quattro parole, sedici lettere, otto vocali e otto consonanti le fece venire i brividi. Iniziò a correre...
Ma dove?
Dove stava andando?
E perché?
Corse, corse e corse ancora fin quando non crollò per terra, travolta dai suoi stessi dubbi. Ad un tratto una serie di figure si addentrarono nella nebbia, scivolando sul terreno come se provenissero da un'altra dimensione. Una sequenza di tre colori sfumavano davanti ad Eva: grigio, giallo e nero. Confusa, si strofinò gli occhi. Subito dopo si fece avanti un'altra figura.
Un uomo alto, vestito con una miriade di colori addosso, dal rosso al verde, dal bianco al blu, avanzava verso Eva, ormai completamente smarrita. Aveva gli occhi azzurri, proprio come i suoi.La bambina ripensò all'azzurro dei suoi occhi spegnersi lentamente, al calore che abbandonava il suo corpo, al sorriso che lasciava il suo viso. Lei non aveva fatto niente. Lo aveva solo guardato, occhi azzurri riflessi in un mare cristallino. Le sembrò di annegare.
Ed ecco che Eva si ricordò: doveva andare alla stazione, ma qualcosa dentro di lei le ripeteva che non era la scelta giusta.
Suo padre era proprio davanti a lei e la osservava, immobile, con sguardo innocente, proprio come la bambina di dieci anni che era rimasta a guardare.
Il ricordo del padre sembrava essere sempre più distante, ma la sensazione sul petto della ragazza restava la stessa. Non sarebbe stato il luogo né il tempo a cambiare ciò che provava: dolore, sofferenza, rimorso. E, in quel momento, forse reale o forse immaginario, non importava, la ragazza si rese conto che doveva imparare a convivere con le sue emozioni, a sopportare il dolore, a ritagliare per lui uno spazio nel suo cuore una volta per tutte. Non si scappa dal dolore, non si prova a negarlo, lo si accetta e si continua a sorridere.Eva si svegliò di soprassalto, trovandosi inaspettatamente avvolta nelle coperte del suo letto. Eppure le sembrava di aver intrapreso un lungo cammino...
Era in ritardo, lo sapeva eccome.
Ma non si mosse.
E lasciò che l'orologio suonasse l'ultimo rintocco.
STAI LEGGENDO
Una ferita ancora aperta
Short StoryCiao a tutti e benvenuti su questa nuova pagina! ✨✨ Vi lascio qui un breve racconto, per cominciare, scritto da me✒️ La protagonista è Eva, una ragazza che ha visto morire davanti ai suoi occhi il padre e conserva nel suo cuore il ricordo di quella...