"Forse in amore le rose non si usano più"
Non mi portarono nella stessa stanza precedente, percepii un diverso percorso. Arrivati davanti a un'altra cella mi tolsero la benda dagli occhi. Le pareti lucide della stanza erano bianchissime, anche il pavimento e il soffitto lo erano, quasi non si riuscivano a vedere i limiti di uno e dell'altro. Non avevo mai visto niente di simile, ancora il resto della struttura mi era sconosciuta, ma sembrava tutto così innovativo e tecnologico.
A colorare la pallida stanza c'erano altri ragazzi e ragazze, una decina circa. Notai dei lettini, anch'essi con coperte bianche e grigie. La stanza sembrava enorme, forse era per il gioco di colori, sempre che lo fossero. Tutto quel bianco dava una sensazione di freddezza, rigidità, distacco... tutte emozioni che non ero abituata a provare.Un enorme senso di malinconia mi avvolse, volevo casa mia, la mia famiglia, mio fratello... volevo la mia vita. Notai nei visi degli altri ragazzi lo stesso bisogno, si vedeva, dai loro occhi stanchi.
Infilarono delle chiavi nella serratura del cancello di ferro di fronte a me e lo aprirono. Mi spinsero dentro con tanto disprezzo, tanto che caddi a terra. Sentii il cancello richiudersi insieme al fastidioso rumore delle chiavi. Non riuscivo ad alzarmi, mi sentivo senza energie. Appena i due vestiti di nero si allontanarono, avvertii dei passi veloci venire verso di me, e delle mani mi aiutarono ad alzarmi.
"È conciata male." Disse una voce sottile vicino a me.
"Venite, appoggiatela su un letto." Affermò un'altra.
Vedevo tutto un po' sfocato e non capivo il perché, dato che prima era tutto molto nitido.
Sentii la soffice sensazione del materasso accompagnarmi nel sedermi, mentre le persone intorno a me non lasciavano ancora la presa. Atterrai sana e salva, e appoggiai la schiena al muro per trovare un minimo di stabilità. Sorressi la testa con una mano, chiusi un attimo gli occhi e li riaprii dopo qualche secondo. Finalmente riuscivo a vedere di nuovo; trovai davanti a me due ragazzi e una ragazza, che tra l'altro si somigliavano pure. Lei aveva gli occhi chiari e i capelli castani con delle labbra molto carnose, uno dei due ragazzi, quello alla sua destra aveva i capelli neri e gli occhi marroni con delle leggere lentiggini che accumunavano tutti e tre, mentre l'altro ragazzo aveva i capelli più chiari e gli occhi celesti. Penso notarono il mio disagio nell'essere così spaesata, dato che presero loro l'iniziativa di parlare.
"Come ti senti?" chiese la ragazza porgendomi un bicchiere di acqua. Alternai lo sguardo per due secondi da lei al bicchiere, e poi lo presi.
"Grazie..." dissi con una voce sottile. "Succede sempre così?" domandai.
"Ti ci abituerai, capita ogni volta che si fa una 'rêverie'." Disse uno dei due ragazzi. "Cosa è una 'rêverie'?" continuai con le domande.
"È quel che ti è appena successo, il gas, il sogno, non ti dice niente?" spiegò il ragazzo con gli occhi marroni.
"Lo chiamiamo così perché il gas ci fa sognare le situazioni che ci spaventano di più." Affermò la ragazza.
"Sì, penso di aver capito di cosa si tratta." Bevvi un sorso d'acqua.
"Grazie" sussurrai.
"Di cosa?" chiese lei.
"Per avermi aiutata."
"Figurati, qui siamo tutti una famiglia ormai, ci si aiuta a vicenda, sennò non si sopravvive." Disse la ragazza. "Io sono Candace, loro sono Kevin e Jonni."
"Piacere, Megan. Da quanto tempo siete qui?"
"Da un anno e dieci mesi." Rispose il ragazzo con gli occhi chiari, con una sfumatura di tristezza nella sua voce.
Un anno intero! Quelle parole mi rimbombarono in testa. E se anch'io fossi rimasta così tanto tempo lì dentro? O forse anche di più?
Mi ricordo che una volta alle elementari avevo fatto un lavoro di gruppo con alcuni miei compagni, avevamo lavorato molto per poterlo consegnare alla scadenza. Era davvero bellissimo, avevamo curato ogni minimo dettaglio, ogni particolare mostrava l'impegno messo per farlo. Ma due giorni prima della consegna, un nostro compagno ci rubò il lavoro lasciandoci a mani vuote. Non potevamo fare niente, avremmo consegnato un foglio in bianco.Fui io a invogliare i miei compagni a provare a fare un altro lavoro, più bello di quello di prima e consegnarlo. Diedi loro come una speranza; dissi che nessuno poteva tapparci le ali, non a quel gruppo, non alla sottoscritta. E ci riuscimmo, consegnammo il progetto in tempo, ricevendo così le lodi da parte non solo della nostra maestra, ma anche del preside.
Pensai di non avere più quella stessa forza di volontà, che se ne fosse andata insieme alla speranza di rivedere la mia famiglia.
Clare non si lamentò per il male ai piedi, cosa per lei molto difficile da sopportare, data la sua pigrizia. James non smise un attimo di camminare e Charlie fece lo stesso. Arrivarono nei pressi della sede dell'industria. La grande insegna luminosa arrivava addirittura a far luce nel sentiero del bosco vicino, dove si trovavano i tre ragazzi. "Ok, stavolta ci serve un piano." Disse Clare.
Effettivamente aveva ragione, era la struttura di un'azienda molto conosciuta, era circondata da telecamere e antifurto vari.
"Non penso sia possibile entrare senza che qualcuno si accorga di noi." Affermò James. "Io avrei un'idea, è un po' rischiosa, ma cosa non lo è ultimamente?" Concluse Charlie."Parla genio." Disse Clare prendendolo in giro. E così Charlie illustrò il 'piano' agli altri, che subito si misero al lavoro.
Mi svegliai con un forte allarme che mi esplodeva nelle orecchie. Mi alzai subito; l'ambiente bianco si era colorato di rosso, c'erano delle sirene del medesimo colore che lampeggiavano ovunque. Cosa stava succedendo? Mi alzai di scatto e corsi verso il centro della stanza.
Candace e i suoi fratelli erano già svegli, stavano cercando di capire anche loro cosa stesse accadendo.
"Candace! Che succede?" urlai. Si avvicinò a me.
"Sembra che tre ragazzi abbiano provato a entrare nello stabilimento." Mi disse. "Oh Dio, no. James, ma che cavolo hai in quella testa?!" Sussurrai."Cosa?" urlò l'altra.
"Niente." affermai "Dopo ti spiego."
C'erano come dei soldati che correvano per i corridoi, non li avevo mai visti prima d'ora. Il timore che fosse successo qualcosa ai ragazzi arrivò come un'ondata d'aria fredda d'inverno. Cominciai a pensare al peggio come mio solito, gli altri intorno a me rimasero immobili, come se niente ormai li spaventasse.
E poi tutto d'un tratto, il silenzio.
Le luci tornarono bianche, le sirene smisero di suonare, non c'era più nessuno nei corridoi.
Mi avvicinai a Candace.
"Candace, penso che mio fratello sia qui." Le dissi.
"Perché, hai un fratello?" chiese.
"Sì, anche lui è uno di quelli che l'organizzazione ricerca."
"Ed è venuto qui?"
"Sì."
"Senza offesa ma hai un fratello scemo." Disse
"No, è colpa mia. È venuto qui per me." Affermai colpevole, in preda al panico.
"Sei sicura che sia lui?""Sì, ne sono più che certa."
Appena terminata quella affermazione sentii delle porte sbattere all'esterno della cella. Mi avvicinai per guardare meglio nei corridoi.
I due uomini vestiti di nero stavano cercando di tenere fermo qualcuno bendato, ma ancora erano lontani non riuscivo a vedere bene.
Sentii un lamento di dolore provenire dalla persona incastrata tra le braccia dei due. "Piano, piano giganti bendati." disse, era una voce a me familiare.
Cercai di guardare meglio. La mia prospettiva visiva cambiò nel giro di un minuto quando iniziarono ad avvicinarsi alla cella. Cominciai a scorgere qualcosa finalmente, era legato ma ancora non riuscivo a vedergli bene il viso bendato. Lo osservai; aveva i suoi vestiti, doveva essere lui, per forza.
"James." sussurrai tra me e me mentre lo vidi sorpassare la mia cella.
"James!" urlai. Le mie mani erano aggrappate al cancello che dava sul corridoio. "Megan?" disse piano, arrestò il passo.
Con una forza che non avevo mai visto prima, si liberò dai due uomini in nero, spingendoli entrambi verso il muro e si tolse la benda nonostante le mani legate. "Megan, dove sei?" gridò cercando con lo sguardo intorno a lui.
"Sono qui!" urlai agitando la mano e il braccio fuori dalle sbarre.
Corse, corse verso di me.
"Megan, stai bene." Appoggiò le mani sulle mie, fece un sospiro di sollievo. Provai a dire qualcosa, ma mi fermò subito.
"No, no ascolta Meg, ascoltami bene, abbiamo un piano, devi solo resistere ancora un po', capirai cosa fare al momento opportuno, me lo prometti? Promettimelo Meg." Intanto i due un po' storditi si rialzarono da terra e si avvicinarono velocemente.
"Sì, te lo prometto." Affermai scuotendo la testa dall'alto verso il basso, ormai con le lacrime che scivolavano una dopo l'altra sul mio viso. Mi guardò con quei suoi occhi calmi, e con la sua mano mi asciugò le lacrime come suo solito.
Arrivarono da dietro, lo presero, lo strattonarono, sentivo gli stessero facendo male, ma lui continuava a sorridermi. Non riuscii a dire o fare nulla, davanti a quella scena ero ancora una volta impotente.
"Ti voglio bene." Disse, e poi lo portarono via, come fosse un animale.
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Rose Rosse
PertualanganMegan, una ragazza sensibile amante della musica e della lettura, adora perdersi nei racconti più avvincenti e immedesimarsi nei personaggi principali; stavolta però, sarà proprio lei la protagonista della storia. L'avventura inizia quando sia lei c...