55. (Pansy's point of view): 2

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Tre giorni dopo.

Ok, era una follia.

Mi riguardai per lultima volta allo specchio. Indossavo un abito nero, con tanto di corpetto e gonna a balze, scelto appositamente per vendicarmi del recente matrimonio non consensuale al quale ero stata costretta a prendere parte, un cappello da vecchia zitella con delle strane piume sopra, con una retina nera a coprire gli occhi, rubato strategicamente dall'armadio di mia madre, e degli stivaletti con qualche centimetro di generoso tacco, dello stesso colore di tutto il resto.

Oh cazzo, è davvero una follia. Porca merda.

Respirai a fondo osservando la mia immagine riflessa davanti a me, poi chiusi gli occhi e mi ricordai perché lo stavo facendo.

Le immagini di Dylan che mi toccava, che mi stringeva e mi faceva male, che mi lasciava segni viola sul corpo. Mia madre che urlava, mio padre che rimaneva in silenzio, il vaso di fiori scagliato a terra da quella donna pazza e psicopatica. Il prete che sigillava la mia anima a quella di quell'uomo sconosciuto, più vecchio di me, schifosamente ricco e pervertito, l'anello che mi infilava al dito, le sue labbra raggrinzite e secche che premevano violentemente contro le mie. La sua mano che mi sollevava la gonna e che ci si insinuava sotto senza alcun permesso.

I miei occhi si aprirono di scatto, incontrando i loro gemelli nello specchio, e d'improvviso mi sentii più bella, potente e forte che mai. Afferrai la mia valigia, pronta ormai da giorni e nascosta sotto il letto, e presi un ultimo, decisivo respiro, prima di uscire a passo deciso dalla camera. Rimpicciolii la valigia fino a farmela entrare nella manica dell'abito per poterla comodamente nascondere: l'avevo resa piccola come un anello.

Mi stampai un sorriso in volto, pronta ad affrontare quel mostro che ormai dovevo chiamare marito, e scesi le scale con calma e grazia. Nessuno doveva sospettare niente, doveva sembrare tutto nella norma, tutto regolare.

Vivevo con quel mostro solo da due giorno, eppure non mi ero mai sentita così tanto in trappola in tutta la mia vita. Mangiavamo separati, ci vedevamo solo due ore la mattina, quattro il pomeriggio, e dopo cena, la notte, perché lui aveva espressamente detto che non mi amava, non mi trovava bella e affettuosa, né tantomeno degna di ricevere amore. Mi aveva sposata solo per potermi aggiungere alla sua collezione di puttane da potersi sbattere ogni qualvolta volesse.

Ne avevo incontrate due o tre, nel mio breve tempo di permanenza a casa sua. Gironzolavano come fossero a casa loro, e quasi quasi mi era venuto il dubbio che non avesse sposato pure loro, ma non essendo possibile mi convinsi che mi aveva presa in moglie solo per essere certo di avere qualcuno da scopare nel momento in cui le sue regolari donne non sarebbero state disponibili.

- Dove stai andando? - la sua voce mi arrivò forte e chiara non appena misi piede nell'atrio. Se avevo pensato di potermela scampare fino a quel momento, mi sbagliavo, ma fortunatamente il mio brillante cervello aveva già organizzato tutto quanto.

Mi girai a guardarlo in faccia, con un sorriso mieloso dipinto sulle labbra. Avevo sempre recitato la parte della povera ragazzina a lui grata per averla tirata fuori da una situazione senza uscita, assecondandolo in ogni suo capriccio, così per tenermelo buono in vista di quello che avrei fatto. Avevo escogitato questo piano già da quando ero tornata da Hogwarts con i miei genitori, tre giorni prima, e non c'era niente in assoluto che sarebbe andato storto. Era tutto assolutamente perfetto e minuziosamente calcolato.

- Una mia cara amica è morta venerdì scorso, - iniziai, abbassando lo sguardo e fingendo un singhiozzo. Riuscii perfino a farmi cadere qualche lacrima, in parte grazie alla pozione presa pochi minuti prima e in parte grazie alle mie doti recitative, che non erano proprio niente male. - Sto andando al funerale.

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