Capitolo 9

50 5 11
                                    

Sophie

03:30 di notte.
Era già passato un giorno da quando le sue labbra avevano quasi sfiorato le mie e si era, per un attimo, segnato un destino irreversibile.
Forse era stata un po' una salvezza quel bacio mancato, era successo così in fretta, mi ero fatta trascinare dal vento della vita, prendendola così per come veniva, inciampando ogni tanto su qualche paura, ma agendo di cuore, così solo come io so fare.
Non mi ero fatta più sentire, né con lui né con nessun altro.
Avevo passato tutto il giorno a letto, a combattere con i brividi mentre ripensavo a quel momento, ormai in loop nella mia testa per ore, terminando poi con finali sempre diversi, alcuni più passionali ed altri più imbarazzanti. Mi concessi solo quell'oretta di pausa dalla pazzia uscendo un po' di casa e stando con gli amici, ma rivederlo mi aveva solo confusa ancor di più, non eravamo amici e non lo saremmo mai stati. Mi domandavo se si fosse ingelosito, un po' fu una sfida lanciata, una vendetta per il suo comportamento.
Non riuscivo a chiudere occhio, il vento si era trasformato in tempesta, mi aveva portato nel mare dei miei pensieri e, nonostante ormai io fossi diventata una brava nuotatrice, stavo rischiando comunque d'annegare.
Mi giravo e rigiravo nelle azzurre lenzuola fredde, spostando i cuscini, a volte portandoli sopra la testa, altre abbracciandoli.
I raggi lunari entravano invadenti dalla finestra e l'aria notturna mi teneva più sveglia che mai.
Ero immersa, anima e corpo, in quelle notti d'estate in cui la luna risplendeva come se fosse il sole di mezzanotte.
Mi alzavo, camminavo un po' in giro per la stanza e mi risedevo sul letto, a volte poggiando i piedi sulla spalliera imbottita, altre con i capelli, che ribelli, lasciavo scendere dal bordo del letto, toccando il pavimento.
Ci sono giorni in cui hai voglia e non lo dici. Quei giorni in cui forse non te ne accorgi nemmeno, stai lì in camera, tutta sola, sotto le lenzuola; a rigirarti tra le coperte con gli occhi chiusi, lasciando che la tua mente giri un intero film porno. E non ti basta, non ti basta nulla, tutto ciò che la tua mente può immaginare, tutte le posizioni, le sensazioni, riempiono di niente. Cercai di distrarmi, volevo guardare le stelle con una sigaretta tra le dita.
Mi ricordai di aver tenuto in borsa una delle sue Marlboro. 
Il giorno prima del compleanno di Valerio, quel pomeriggio che precedette la serata che passammo distesi insieme nel letto, ero arrivata in ritardo nel nostro solito posto e lo avevo trovato con la canna in mano.
Non ricordo il perché, ma teneva con l'impugnatura ben stretta quella sua delicata sigaretta bianca dal filtro arancio, che aveva tirato fuori dal pacchetto, e mentre sorridente si lasciava andare sulle mie gambe, io gli avevo aperto la mano, gliel'avevo tolta e lo avevo stuzzicato per qualche minuto. Quando se ne era andato di fretta mi ero dimenticata di restituirgliela, così l'avevo conservata.
Corsi nel salone a prenderla.
Con il ricordo fresco in mentre, iniziai a cercare la borsa che avevo lasciato appesa sull'appendiabiti.
Scesi le scale, in punta di piedi sul pavimento gelido, e al buio mi orientai con la memoria fotografica, allungando le mani per tastare ciò che stessi toccando. 
Finalmente sentii la pelle ruvida della mia borsa. Infilai la mano e, facendomi spazio tra le cose che vi avevo messo dentro, cercai la sigaretta.
All'improvviso si accese la luce.
«Sophie! Ma che stai facendo con le mani dentro la mia borsa?», domandò mamma.
La luce mi lasciò due secondi di cecità, strizzando gli occhi iniziai a vedere qualcosa. Mi girai e vidi che non era la mia borsa, ma essendo di grandezza uguale alla mia, mi ero confusa.
«No, ho sbagliato! Dovevo prendere la mia!», esclamai. «Ma in ogni caso, che ci fai sveglia alle 04:00 di notte?».
Mi guardò stranita e diciamo un po' arrabbiata; aveva le braccia conserte ed il piedino che batteva ripetutamente contro il pavimento in modo nervoso.
Il suo viso assonnato era evidenziato dalle borse sotto gli occhi, i suoi capelli ricci dai riflessi rossi scompigliati con la forma del cuscino ed il viso così pallido.
«Non riesco a prendere sonno».
Improvvisamente la sua espressione urtata tramutò. «C'è qualcosa che non va? Ne vuoi parlare?», mi confortò, ma non avevo voglia di affrontare qualsiasi tipo di argomento.
«No, no tranquilla mamma».
«Va bene, allora torno a letto. Cerca di dormire tu!». Girò le spalle e quando poggiò il piede sul primo scalino esclamai: «Grazie!».
Mi rivolse un sorriso pieno d'amore, che raramente pronunciava, spesso era molto seria, e rispose:
«E ci sarò per sempre, ogni volta che ne avrai bisogno!».
Ci lasciammo così, lei poi salì le scale ed io, alla luce del mio lampadario in cristallo, afferrai la borsa e tornai in camera.
Chiusi la porta accompagnandola fino allo scatto, gettai la borsa sul letto dopo aver pescato la sigaretta.
Aprii le finestre in legno bianco, grandi quanto due porte, che davano l'ingresso su un mini-balconcino dove al massimo potevano entrare due persone. La ringhiera in ferro battuto che formava disegni di rose, mi permetteva di sporgermi un po' di più, così poggiai entrambi i gomiti sul freddo bordo, formando una piccola onda con la schiena.
Due dita vellutate a tenerla ben salda, la portai tra le labbra ed avvicinai anche l'accendino che avevo nella mano opposta.
L'accesi.
Aspirai in fretta i primi due tiri, al terzo trattenni il fumo nella bocca ed osservai la luna.
Era magnifica, così grande quanto le mie paure e allo stesso tempo così lontana.
Dovevo ammetterlo, cercavo risposte su di lei, che magari i suoi raggi potessero illuminare i miei pensieri. Stavo correndo nel buio sperando che la luna m'illuminasse il cammino.
Misteriosa e luminosa allo stesso tempo, affascinante con quel suo pallore, ma elegante e femminile come una giovane donna. Affronta la notte, la regna, così pura e così tenebrosa.
L'ho sempre vista come quel qualcosa d'ammirare con tutti i suoi lati negativi; io, come lei, volevo qualcuno che osservasse entrambe le mie parti e si innamorasse della parte nascosta, di quei difetti che mi sono sempre ostinata a coprire.
Perché vivere nell'assidua ricerca della perfezione se, di fatto poi, non esiste?
Rimasi lì fino ad intravedere le prime luci dell'alba che non mi soffermai a guardare per troppo, un po' per la sonnolenza e un po' perché le sfumature del cielo in quelle prime ore della giornata, in cui tutto tace, ma contemporaneamente sta prendendo vita, volevo mi riportassero sempre in un bel ricordo e non nel rammento di una notte insonne passata in solitudine. Stremata mi gettai tra i cuscini, con l'orologio che segnava le 06:00.
«Sorellina!».
Sentii un tono maschile infrangere il mio sogno che dimenticai subito dopo aver sentito la sua voce. Aprii gli occhi, davanti al mio volto c'erano quei suoi riccioli neri, le guance con la ricrescita della barba che ancora dovevo abituarmi a vedere sul viso di Riccardo e i suoi occhi azzurri tali e quali ai miei.
Mi era mancato tantissimo.
«Sei tornato!», esclamai.
Lasciai il cuscino a cui mi ero aggrappata per quelle poche ore di sonno, ripulii la saliva che mi era scesa al lato della bocca mentre dormivo, e lo abbracciai forte. Il suo petto muscoloso era come una roccia su cui aggrapparmi in caso di caduta durante la mia faticosa scalata sulla montagna della vita.
«Hey! mi stai facendo male!», disse divertito.
Non sapevo se era lo stress che mi aveva procurato la notte o il rumore dei miei pensieri, ma quando mi staccai da lui iniziai a piangere, sentendo lo sbalzo d'umore che mi formicolava addosso.
«Piccola Bambi che succede?» domandò.
Fin da piccola mi ha sempre chiamata così, Bambi, come il cartone animato della Disney. Forse per i miei occhi da cerbiatta o per l'aria innocente del mio visino, ma mi ha sempre vista così, piccola e indifesa, che a malapena riuscivo a reggermi sulle gambe, ma con il coraggio di andare avanti nonostante tutto.
«Niente... sono felice che tu sia tornato!», risposi asciugando le lacrime e continuai:
«È tornata anche Zoe con te?» 
«Sì! È di sotto. Voleva fare colazione in qualche bar... la accompagni tu mentre io mi faccio la doccia?» «Certo! Dille che sto arrivando! Il tempo che mi preparo».
Riccardo uscì dalla cameretta, io scesi dal letto e mi diressi verso l'armadio.
Presi anche il cappello Nike per nascondere i capelli che avevo e che non mi andava di sistemare, più ingestibili del solito.
«Zoe eccomi!».
Scesi le scale di corsa, non vedevo l'ora di prendere un po' d'aria e distrarmi.
Raccolse i suoi lunghi capelli castani in una coda, lasciando però i due ciuffi più corti a sfiorarle il viso, indossò gli occhiali da sole coprendo le occhiaie che non aveva truccato, prese la borsa e ci incamminammo verso il bar più vicino.
Ci fermammo in uno di quei bar rustici, in realtà perché era il più vicino casa, ma la sua struttura così neutra, semplice, gli dava quel non so che di curioso. Ci sedemmo in uno dei tanti tavolini rotondi sotto il verde tendone sbiadito dal sole, con le sedie in legno bianche e un carino centrotavola con un tulipano arancio; anche il tavolo era in legno, di un colore che evidentemente prima doveva essere un bianco lucente ed era diventato una panna sbiadito.
Ebbi appena il tempo di poggiarmi sulla sedia che arrivò il cameriere a portarci i menù.
Lo osservai per bene, era riuscito ad attirare la mia attenzione. La prima cosa che notai furono le macchie d'inchiostro blu sul dorso della mano riportate anche sul risvoltino della camicia bianca mal stirata che indossava, la cintura nascondeva la fine della camicia che era appallottolata dentro quei jeans strappati slavati, forse scoloriti o forse era il lavaggio del jeans che sembrava tipo vecchio di mille anni.
Ai piedi aveva delle banalissime Adidas bianche e nere, indossava anche un cappello bianco, con il nome del bar stampato sopra, e nascondeva sotto esso il suo cespuglio ramato, sfumato in modo identico a quello di Denise.
«Hai scelto?», domandò Zoe interrompendo la mia ispezione.
«Mmh... sì! Solo un caffè», esclamai ritornando a fissarlo mentre prendeva le ordinazioni di qualche altro tavolo un po' più lontano da noi.
Aveva un volto sbalorditivamente familiare, ma solo per i lineamenti, per il resto era nuovo.
«Cameriere!», chiamò Zoe alzando il ditino.
«Sì, mi dica!».
Non aveva il cartellino con il nome, anzi sembrava fosse stato strappato, c'era il filo che fuoriusciva scucito e la targhetta mancante.
«Un caffè ed un cappuccino con la brioche!».
Mentre scriveva gli fissai per qualche secondo gli occhi neri nascosti dietro le lenti degli occhiali da vista.
Ma dove lo avevo visto?
La mia espressione concentrata ed intenta ad osservarlo era trasparente, tanto che Zoe se ne accorse tirandomi un calcetto sotto al tavolo per riportarmi fuori dalla mia testa.
«Ok! Perfetto. Serve altro?», chiese il ragazzo. «No! Basta così per ora. Grazie mille», rispose Zoe, poi mi guardò ed aggiunse:
«Sophie! Ma che ti prende?! L'hai fissato tutto il tempo!»
«Solo qualche secondo... è che... mi è sembrato di conoscerlo tutto qui».
In realtà lo conoscevo, era Mattia, lui non mi aveva riconosciuto, io indossavo un cappello che mi nascondeva i capelli e degli occhiali.
Rimasi pensierosa, con le gambe incrociate sotto la sedia, aspettavo il mio caffè per scappare via subito dopo.
«Allora come si chiama?».
Pronunciò un sorrisetto più compiaciuto che mai, osservando il mio viso rosso.
«Chi?».
Un forte calore colorò le mie tempie, mi sudarono le mani e sentii un forte formicolio allo stomaco. «Il ragazzino che ti ha fatto venire le farfalle nello stomaco».
Stavolta una cameriera ci portò l'ordinazione, mettendosi tra me e la faccia sorridente di Zoe, interrompendo per qualche secondo la discussione.
«Ma nessuno Zoe...».
Con gli occhi increduli bevve un sorso di quel latte macchiato e quando posò la tazza parte della montagnetta di schiuma le rimase sui baffi, facendomi scoppiare in una grossa risata.
Si vergognò per via delle persone che, sentendomi ridere, si voltarono a guardarci.
Sfilò quella carta bianca inutile che i bar spacciano per tovaglioli, e si asciugò la bocca, rimanendo con gli occhi chiusi e le guance bordeaux.
«Questa me la paghi», bisbigliò trattenendo la risata, poi continuò:
«Sophie, fattelo dire... sei pessima a nascondere i sentimenti. Non ce ne andiamo di qui finché non mi dici chi ti ha rubato il cuore».
Mi guardò con quell'aria di superbia, le labbra stirate e le mani giunte poggiate sul tavolo. «E va ben, ma non sono innamorata».
«Vi siete baciati?»
«Quasi...», dissi creando un po' di suspence e lei mi guardò sorreggendo il viso con i pugni e i gomiti saldi sul tavolo, entusiasta, aspettando che le raccontassi di più.
«È successo tutto così in fretta, non so che fare. Adesso sono praticamente sparita».
«Ti piace?»
«Quando sono con lui sto bene, mi sento a mio agio e mi fa ridere, ma c'è qualcosa che mi frena... forse ho paura di rimanere delusa».
«Forse perché speri che le cose scorrano nel modo più perfetto possibile. Nulla è facile, anche per me e Riccardo è stato complicato, delle volte ci facevamo sopraffare da problemi inesistenti. Ma alla fine, quando c'è sentimento da entrambe le parti, si risolve tutto».
«Ho bisogno di pensarci per bene prima di fare il passo.
E comunque sì, un po' mi piace», ammisi.
«Cosa ti piace di lui?».
Un sorrisetto spontaneo spuntò sul mio viso perso nel suo ricordo.
Forse era il modo in cui mi guardava, i suoi bellissimi e terribili occhi verdi, l'accessorio più bello che a volte indossava. 
Quel sorriso da stronzo fuori moda per il suo viso da bambino, così autentico.
«Non lo so», risposi.
«Va bene. Andiamo, si è fatto tardi».
A casa andai nel bagno degli ospiti e mi riempii la vasca. Aprii il getto lasciandolo scorrere, gettai i vestiti sporchi sul pavimento e mi sedetti sul bordo della vasca rettangolare, rivestita con mattoni grigi che riprendevano le venature del marmo del lavandino; tastavo ogni tanto la temperatura dell'acqua con le dita. Prima che si riempisse troppo, spensi il getto, lasciando che l'acqua sfiorasse appena il bordo.
L'acqua calda mi sfiorava delicatamente il corpo e accarezzava i capelli; lavai via la tristezza e l'ansia. Uscii dalla vasca avvolgendo l'asciugamano nei capelli, nel mentre indossai l'intimo e disegnai una faccina sul vetro appannato, era meglio che mia madre non la vedesse o si sarebbe arrabbiata, "Restano le macchie!" Diceva sempre.
Tornai in camera affannata per il vapore, vestita di goccioline e di calma.
Quando presi il telefono trovai un singolo messaggio da Davide e, proprio in quell'istante, le palpitazioni aumentarono.
"Quando ti va, possiamo parlare?".
Mi gettai sul letto in preda ai dubbi e alle preoccupazioni, avvolta dal mio asciugamano rosa preferito.
All'improvviso sentii squillare il telefono, era Francesca.
«Pronto!», risposi
«Sophie... ho bisogno di te. Vieni a casa mia?»
«Certo!»
«Allora dopo pranzo...?» «Va bene».
Le cose si complicarono più del dovuto, andare a casa sua significava incontrare Davide, ma non avevo altra scelta, la mia migliore amica aveva bisogno del mio supporto.
«Va bene! A dopo».
Durante l'ora più calda e afosa mi diressi a casa di Francesca.
Lunghi sospiri mi accompagnarono fino al cancelletto che chiudeva il grande muro arancio, con qualche crepa e pezzi di colore mancante, sormontato dalla siepe che attorniava la casa.
Sentii lo scatto dell'apertura del cancello e lo spinsi. Mi incamminai con gli occhi bassi sul sentiero in pietra che portava all'ingresso, quando in una frazione di secondi alzai lo sguardo mi accorsi della porta semichiusa e delle dita che la tenevano.
«Ciao!», sentii pronunciare da quel che mi sembrava il tono della sua voce.
D'un tratto la porta si aprì del tutto, sull'uscio vi era Davide, con quell'immancabile maglia nera larga ed i jeans strappati con tasconi che spesso gli vedevo indosso.
Rimase incredulo dalla mia apparizione, sembrava avesse visto un fantasma. Fu la prima volta che lo vidi così stupito, ma durò per poco, ritornò in sé in un attimo, riassumendo quell'espressione da stronzo che gli si addiceva tantissimo.
Io speravo non dicesse nulla sul fatto che l'avevo completamente ignorato nei messaggi, non degnandolo neanche di una risposa.
Una parte di me però, sperava che mi prendesse per le guance e mi desse uno di quei baci appassionati che avevo visto solo nei film d'amore o immaginato leggendo qualche romanzo rosa.
Calai gli occhi ed iniziai a camminare ed esattamente a metà strada lui mi passò accanto sfiorandomi la mano. Un brivido corse lungo la mia schiena facendo arrestare il mio passo.
Si girò di tre quarti, mostrandomi parte del suo profilo disegnato, mi concesse solo quello sguardo, poi aprì il cancello e sospirando uscì.
Salutai la madre di Francesca e lei non si limitò solo a ricambiare il saluto, ma mi accompagnò con i suoi occhi verdi fino a dove potesse arrivare la sua vista.
«Hey!», sussurrai entrando dalla porta.
Quella stanzetta indimenticabile, dove avevo passato pomeriggi interi a cantare a squarciagola con la cassa di Francy, con il volume così alto da non sentire più il peso dei dolori.
«Hey! Vieni, siediti», disse.
Mi sedetti sulla sedia fucsia con le rotelle, spostandola un po' più in là rispetto alla scrivania, spingendomi con i piedi fino ad arrivare davanti al suo letto, emettendo quel fastidioso rumore plastico delle rotelle che ruotavano sul pavimento.
«Non so come rimediare con mio fratello, non mi rivolge la parola, né a me né a Vale...»
«È solo arrabbiato, gli passerà vedrai! Tu non hai fatto niente di male! Hai seguito il tuo cuore, hai fatto ciò che ti rendeva felice e io non ci vedo niente di sbagliato!». Il discorso d'incoraggiamento stava facendo riflettere anche me, facendomi ritornare in testa la famosa frase che mille volte mi era passata su Tumblr: "perché una volta tanto, anziché fare la cosa giusta, dovremmo fare la cosa che ci rende felici".
Le uscirono due lacrimuccie e stentò:
«E allora perché mi sento così sbagliata?»
«Tu non sei sbagliata e non lo sei mai stata. Sei una bellissima ragazza, sei divertente, socievole... l'amica che tutti vorrebbero e che io ho avuto la fortuna d'incontrare».
Aspettai che le sue labbra pronunciassero un sorriso, ma le rimase solo un'espressione dubbiosa, così aggiunsi: «Non sei sola, ci sono qua io. Sei tutta cuore, per questo le persone rischiano di ferirti, ma tu non ti fare cambiare dalla vita, devi essere più testarda».
Trattenne per qualche secondo il sorriso, poi abbandonò il broncio e sulle sue guance rosa spuntarono quelle due fossette.
Questo la fece stare meglio, si asciugò le lacrime e strofinò il naso. «Grazie!», disse
«Ma di cosa? Sarò sempre al tuo fianco! Ricordi? La mano non te la lascio!» risposi.
Passammo qualche oretta insieme, non lo facevamo da tempo. Le avrei voluto raccontare del mio disagio e di quei solchi che erano spuntati nel mio cuore da quando avevo iniziato a parlare con Davide.
Probabilmente parlarne con lei mi avrebbe tolto un grosso masso da sopra il petto.
Con Davide stava diventando sempre più difficile: mi veniva a cercare dentro i sogni, quei maledetti desideri inconsci che mi incatenavano la mente, lasciandomi la mattina seguente con l'acquolina in bocca per un peccato di cuore.
Le avrei comunque spiegato tutto a tempo debito, non appena avessi deciso di tirarmi fuori dall'abisso dei miei drammi, perché io ero fatta così, quando stavo male mi rifugiamo dentro me, mi chiudevo come un bruco nel suo bozzolo, affrontavo le paure senza ali, sopportavo la tempesta, al riparo sotto una foglia, da sola.
«Vado un attimo in bagno!», esclamò lasciando la stanza.
Giocai con il cubo di Rubik posto sulla scrivania per tenermi impegnata, mentre mi spingevo avanti e indietro con la sedia, lanciando un'occhiata in giro una volta tanto e mi accorsi che la cameretta era rimasta uguale, con gli stessi peluche di sempre posti vicino l'armadio viola, dello stesso colore della scrivania, del comodino e della spalliera del letto.
Presi il telefono in tasca e trovai alcune chiamate perse da mia madre, così non esitai a richiamarla. «Mamma, dimmi! Ho trovato le chiamate», dissi. «Sophie! Ma dove sei? Sono due ore che ti cerco!», brontolò.
«Sono da una mia amica, ma è successo qualcosa?» «No, dovevamo andare alla cena! Ricordi?» «Caspita! L'avevo dimenticato! Sto tornando». La cena era l'ultimo dei miei pensieri, mi era uscito completamente di mente, forse perché non mi andava neanche tanto di fingere sorrisi e parlare della mia bellissima vita vuota che conducevo a Milano, raccontando di cosa studio a scuola o di quanto siano fighi quei locali super alla moda che frequentiamo con i miei genitori durante le cene importati per via del lavoro di mio padre. Per non parlare dei discorsi che mi avrebbe fatto la signora Gemmei su quanto suo figlio fosse cresciuto e di quante volte si allenasse al giorno. «Valerio mi ha invitato a cena con i suoi genitori! Cosa gli dico?!», domandò Francesca elettrizzata entrando dalla porta.
Saltellava allegra tenendosi le guance con le mani, ma la sua espressione era un mix di entusiasmo e imbarazzo.
«Ci devi andare!», consigliai.
«Oh no! Non posso! Mi vergogno! E se non gli piacessi? E se facessi rumori strani mentre mangio? Come li saluto? Gli devo dare la mano? Sono sicura che tanto non gli piacerò, sono ancora affezionati all'ex di Vale, me lo sento...»
«Calma! Andrai benissimo! Sei troppo paranoica. Sii te stessa e vedrai che non sbaglierai». Le bloccai i saltelli, tenendole i nervi saldi. 
«No, no, è troppo presto. Mi viene da vomitare...» «Francy io devo proprio andare o farò tardi. Tu pensaci e fai ciò che ti senti. Se hai bisogno chiama!». L'abbracciai di sfuggita e corsi giù per le scale senza altre distrazioni.
Arrivata a casa entrai dal retro che dava l'ingresso in cucina e, mentre accompagnavo la chiusura della porta, sentii un bisbiglio intento a raccontare qualcosa, riconobbi che si trattava di mia madre dal rumore delle sue scarpe che gironzolavano per il salotto.
Mi affacciai dalla porta della cucina, proprio come avevo immaginato, trovai mia madre con l'espressione di chi era appena stata colta in flagrante, e la signora Gemmei sul divano con accanto il suo adorato figlio, immersi in una discussione che, però, Edoardo stava sfacciatamente ignorando con le cuffie alle orecchie.
«Buonasera signora! Ciao Edoardo», salutai.
Edoardo si limitò a farmi un cenno con la mano, mentre se ne stava seduto comodo sul mio divano in stoffa, diversamente da sua madre che si alzò accogliendomi a braccia aperte.
«Oh, ciao Sophie! Quanto sei cresciuta! Sei diventata una bellissima ragazza!».
Mi afferrò le braccia e mi guardò per bene, era felice di vedermi.
«Edoardo non fare il maleducato! Levati quei così dalle orecchie, alzati e saluta!», aggiunse.
«Non si preoccupi! Ci siamo salutati con Edo». Volevo evitare l'imbarazzante saluto forzato, ma fu inutile, Edoardo si alzò dal divano, sistemò con un gesto repentino la maglia nera che indossava, la ripiegò sulla cinta e lasciò che la parte posteriore ricadesse sui jeans scuri, con qualche strappo e dei fili di tessuto che scendevano lungo le ginocchia. Tolse entrambe le cuffie dalle orecchie e le racchiuse nel suo pugno, si avvicinò a me, allungò il braccio posandomi la mano con gli anelli sulla vita, afferrando per bene la curva della mia schiena. Mi guardò negli occhi e mi sorrise, non era malizia, era imbarazzo.
Mi baciò la guancia e, non appena si spostò, rimasi a fissarlo per qualche secondo, mi era ritornato in mente Davide.
«Scappo in camera!». Mi allontanai indietreggiando, con il primo dei tanti sorrisi ipocriti che il mio viso avrebbe pronunciato per tutta la serata.
Socchiusi la porta e, mentre mi vestivo, mossi qualche passo di danza per alleviare la tensione, mi aveva sempre aiutato a sciogliere la catena di preoccupazioni che si creava dentro me.
Spensierata, tra l'incastro di una piroetta e l'altra, mi muovevo leggiadra, a piedi nudi, sul grande tappeto della mia stanza. In testa la musica d'autore, il buon profumo che emanava la boccetta Chanel a riempire i polmoni, la stoffa che accarezzava i miei piedini smaltati, fuori il tramonto che mi aveva dedicato lui e dentro uno spettacolo di danza allestito dalle mie emozioni.
E danzavo, danzavo, danzavo; su una nuvola o forse per strada, ciò che la mia mente avrebbe voluto immaginare, io ero la ballerina del carillon azionata per casualità mentre si cambia vita e si getta negli scatoloni tutto ciò che fa parte del passato.
In questo motivetto in coppia con il demone in testa, ballavo vestita di bianco in una sala degli specchi, dove ogni tanto mi osservavo e qualche specchio si sgretolava, qualcun altro rifletteva me moltiplicata per mille volte, ed il mio riflesso si alternava, mostrandomi bella da impazzire o così brutta da dovermi nascondere. Per un attimo, con gli occhi chiusi e le mie mani fredde che correvano sensualmente dai capelli, al collo, ai fianchi, immaginai di ballare con lui, come la prima volta, quando mi aveva accarezzato leggermente la guancia con due dita ruvide e aveva lasciato scivolare il dorso della sua mano lungo la mia schiena, quasi modellandola.
Ed era bello sentire ancora una volta, sognando da sveglia, le mani che mi toccavano i fianchi in quel ballo d'amore, fuori dagli schemi e dentro la sottile linea del possibile. «Balli bene!».
Una voce ed un occhio scuro mi sorpresero dal filo di porta lasciato aperto, dal quale non era permesso però guardarvi dentro.
Mi chiedevo fino a che punto avesse visto la mia coreografia dato che avevo iniziato vestita solo dalle mie mutande in pizzo nere ed il reggiseno slacciato. Sussultai spaventata ritornando nel mondo dei mortali, lasciando la mano di chi mi aveva accompagnata in questa danza d'amore tra le onde del mare dei miei pensieri, in cui ogni tanto la sua spuma regalava qualche poesia di due innamorati, infrangendola poi negli scogli, riprendendo fiato e ricominciando.
«Grazie, ma che ci fai in camera mia?».
Indossavo già il tubino bianco che risaltava l'abbronzatura e il colore dei miei occhi cristallini.
Lui, entrando, chiuse la porta dietro di sé e quello che secondo lui doveva essere uno sguardo sexy, alla mia vista, non era altro che l'espressione maliziosa di chi non vedeva l'ora di consumare il suo desiderio carnale. «Mi annoiavo di sotto! Tutto qui. Posso restare?», ammiccò.
Sarebbe stata inutile qualsiasi mia altra risposta, dato che lui, da presuntuoso e cerbero, si sedette sul mio letto come se fosse di sua proprietà, facendo fare giochi erotici al mio pupazzetto Winnie The Pooh.
«Povero Winnie!», sussurrai velando il mio pensiero che doveva restare in silenzio dentro la mia testa.
«Cos'hai da mormorare Winnie?»
«Come mi hai chiamata?», domandai sedendomi sullo sgabello in seduta rosa, era così fastidiosa la sua presenza.
«Winnie! Come lui!», proclamò mostrandomi il peluche strizzato nella sua mano.
La cosa mi disgustò, non solo per la confidenza che si era permesso di prendere e che io non gli avevo mai concesso, ma per ciò che stava facendo fare a quel povero orsetto giallo.
Sollevai le spalle sospirando, riempiendo le guance e sperando fosse semplicemente un incubo.
Mi girai allo specchio, iniziando il trucco, cercando d'ignorare il suo respiro fastidioso e in generale la sua presenza.
«Alla fine ti innamorerai di me!», esclamò. Non potei fare a meno che scoppiare a ridere.
«Certo, se non fosse che sei già impegnata con Davide», continuò.
Lo fissai dallo specchio e vidi che stava a pancia in su, coricato sul mio letto, mi fissava con i suoi occhi tenebrosi posti al contrario ed il mento che puntava verso il soffitto.
«Siamo solo amici, anzi stentatamente ci salutiamo!». Continuai ad intingere il pennello nel fard e a passarlo con le sue setole morbide sugli zigomi.
«Ma come? Forse dovreste mettervi d'accordo perché... lui beh... ha detto ben altro».
Mi colse di sorpresa, arrestai ciò che stavo facendo e mi girai per guardarlo in faccia.
Rabbrividì, come quando sotto la doccia all'improvviso ti colpisce addosso il getto gelido, lasciandoti due secondi senza fiato e subito dopo una scarica d'adrenalina.
«Cos'ha detto?», increspai le sopracciglia.
Muoveva le pupille rapidamente, battendo spesso le palpebre, era un chiaro sinonimo di bugia; d'un tratto però i suoi occhi apparentemente nervosi si fermarono e guardarono dritti dentro i miei.
«Ha detto che le cose tra di voi vanno bene, che parlate spesso... e...».
Prima di finire la frase lasciò del tempo alla mia testa per captare ed intendere la notizia più grossa e delicata che ancora doveva sputare fuori. Avevo bisogno di saperne di più, così lo ripresi:
«E cosa? Finisci la frase!».
Stavo iniziando ad innervosirmi.
«Poi ha detto che... beh insomma... che sei molto brava a...», si fermò mimando un fellatio.
Mi cadde il mondo addosso, tutto ciò che di lui mi ero immaginata erano solo illusioni sciocche di una bambina che credeva ancora all'amore e alle favole. Non avevo mai fatto caso all'illusione, a come la vita possa essere tutta una presa in giro, partendo da Davide, che quei nostri momenti felici erano stati solo una grandissima utopia, ci credevo, ma a quanto pare avevo una pistola puntata dietro la testa proprio da lui.
Non c'è cosa più brutta di essere illusi da qualcosa di veramente bello, ma falso... quando ci si innamora ci si acceca, purtroppo bisogna svegliarsi e non farsi troppo condizionare, perché sennò saremmo fottuti.
Mi amava?
In una partita contro le aspettative, dove giochi alla cieca, viene facile dubitare del viso che stai toccando, se chi, illuminato dal sole, ti dice che sia l'opposto di ciò che t'immaginavi; è comodo fidarsi di chi ha visto quel volto alla luce del giorno, mentre tu ne hai solo respirato il profumo e ideato i lineamenti.
Mangiai le labbra, inghiottii il pianto.
«Ha detto altro?».
«Dai Sophie! Non voglio essere infame con il mio amico! Però era giusto che sapessi ciò che dice sul tuo conto».
Il cuore mi stava per balzare fuori dal petto, la gola tremava per i colpi che il cuore dava al mio corpo.
«Andiamo! O faremo tardi».
Edoardo uscì dalla stanza e, mentre spegnevo le luci della mia toeletta, mi specchiai un'ultima volta per controllare il trucco.
I miei occhi si erano spenti per la seconda volta, anche se sembrava fosse la prima. Da quando le nostre strade si erano incrociate, io non avevo fatto altro che brillare di quella mia luce interiore che da tempo avevo perso.  Giungemmo in quel ristorante ai piedi del Colosseo, un po' distante per l'esattezza, ma che dava una vista mozzafiato di un lato della grande struttura antica romana. I tavoli erano posti su una specie di terrazzina che continuava il marciapiede, allungandolo e prendendo parte della strada, lasciando però lo spazio per le macchine passanti.
Ci sedemmo al tavolo all'angolo, con vicino una giara decorata con dei fiori.
Seduta, continuavo a muovere nervosamente le gambe, non riuscendo a concentrarmi minimamente; mi dava già abbastanza fastidio la presenza di Edoardo, in più tutto il resto aveva mandato il mio cervello in tilt.
Proprio nel momento in cui pensavo di aver perso la calma vidi, seduto al tavolo di fronte a noi, Valerio con i suoi genitori e la sorellina. Lui era il raggio di sole nel temporale, l'unico a conoscenza di tutto con cui mi potevo sfogare.
Gli mandai un messaggio che lui, irriverentemente, ignorò.
Furibonda e senza scrupoli lo andai ad acciuffare fino alla sedia in cui era comodamente seduto.
«Sophie dove vai?», mi bloccò mia madre facendomi restare a novanta con i gomiti sul tavolo ed il sedere alto e curvato.
«Devo salutare un amico! Se passa il cameriere digli che voglio una carbonara come Dio comanda».
Finsi il secondo sorriso della serata.
Arrivai giusto in tempo, quando il cameriere aveva finito di prendere la comanda.
«Buonasera!», salutai cordialmente i genitori di Valerio che mi guardarono sbalorditi ed affascinati. «Buonasera a te!», ricambiarono affettuosamente. «Piacere sono Sophie! Un'amica di Valerio... a questo proposito, Valerio puoi venire un attimo? Ti devo dire una cosa».
La madre di Valerio aveva chiaramente frainteso la questione, entusiasta guardò il figlio e gli sussurrò:
«Non ci avevi detto che era così bella la tua nuova fidanzatina».
«Mamma smettila! Non è la mia ragazza!» le mormorò Valerio digrignando i denti.
Tutta quella scena mi fece sorgere una risatina spontanea che cercai di nascondere maldestramente. «Sarei venuto dopo l'ordinazione comunque...», disse rincorrendomi nel vicolo che precedeva il ristorante su strada.
Mi sedetti sul marciapiede, non curandomi di ciò che avesse detto, trattenni la testa con le mani ed asciugai più volte il naso con le nocche come una gattina.
«Hey! Sophie, tutto bene?».
Mi seguì poggiando anch'egli il sedere sul cemento di quel marciapiede che puzzava, portò un braccio attorno al mio collo e cercò di intravedere il mio visino nascosto dai folti capelli ricci.
«Sono una stupida», singhiozzai.
«Ma che dici!? Tu non sei stupida! Anzi il contrario»; mi abbracciò.
«È bello averti come amico».
Sfilai la testa tra le mani e lo guardai con quel po' di mascara colato appena sotto le ciglia inferiori, con la faccia di chi aveva appena incassato senza restituire, mai, un colpo.
Sbuffò una risata per sdrammatizzare e disse:
«Grazie! Anche per me è bello averti come amica». «Francesca è stata fortunata a trovarti! Io ho incontrato solo un altro stronzo... senza offesa per il tuo migliore amico... anzi si può offendere, non me ne frega un cazzo», pronunciai, mentre con le mani premevo sulle guance.
«No hai ragione! È uno stronzo! Ma gli voglio bene e spero che mi perdoni. Tu gli piaci Sophie... non avevo mai visto Davide così preso da una ragazza. Pensa che l'ultima volta l'ho sentito parlare con una tipa, lei gli ha chiesto di conoscersi e lui ha rifiutato». Alzai il capo e lo fissai con gli occhi lucidi.
«Basta! Sono troppo confusa!»
«Parlagli! E vedrai che tutti i dubbi ti passeranno».
Aveva ragione, era l'unica decisione più giusta da prendere.
Gli mandai un messaggio dicendogli di vederci e rigettai subito dopo il telefono in borsa, poi rimasi lì a parlare qualche altro minuto con Valerio della sua sorellina di sei anni e di quanto si trovasse bene con Francesca, che alla fine però aveva rifiutato l'invito a cena. Grata della sua compagnia e con i dolori alleviati ritornai al tavolo.
Quando mi risedetti c'era già il piatto fumante che mi aspettava, con il suo inebriante profumo che abbracciava le mie papille gustative; quel giorno giocavo di tempismo, arrivando sempre al momento giusto.
Il Colosseo, Roma, la carbonara e un buon amico, erano la ricetta perfetta per mettere tutto in stand-by e preoccuparsi solo di non scottarsi il palato.
Grazie Roma.
«Dimmi un po' Sophie! Che scuola frequenti?», domandò la signora Gemmei infrangendo il mio stato di relax.
«Terzo classico».
Sorrisi riempendo subito dopo la bocca con la pasta per non continuare la frase, altrimenti rischiavo di litigare con mamma, dato che era stata una scelta forzata.
Rimediò lei cambiando discorso:
«Vedo che Edoardo ha proprio un bel fisico, ti alleni molto?»
«Sì! Prima facevo nuoto, ma adesso solo palestra», rispose Edoardo gonfiando i muscoli, dandoci un assaggio del suo fisico scolpito che si vedeva dalla maglietta attillata che indossava e che contornava perfettamente il bicipite.
«Tu Sophie? Fai sport?», continuò la lista delle domande che la madre di Edo aveva in serbo per me quella sera.
«Vado in palestra tre volte a settimana».
«Si vede! Hai proprio un bel fisico!».
Gli sguardi d'intesa tra mia madre e Gemmei mi stavano preoccupando particolarmente, tanto che un pensiero fece più rumore degli altri. Sembrava che le loro domande servissero per farci conoscere meglio: a parer mio, speravano che ci frequentassimo.
«Sei fidanzata Sophie?».
Eccola là, la domanda da un milione di dollari che aspettavano di fare e che cercavano d'introdurre da tutta una serata ed avrei finto di sì, se non fosse che ad ascoltarla c'era mia madre.
«Ahimè no, ma in realtà non è una tragedia, sto così bene sola. Io mi basto».
Sorrisi compiaciuta, con le gambe incrociate una sull'altra, dondolandomi indietro con la sedia, mentre cingevo nella mano destra il bicchiere pieno di CocaCola con le bollicine che nuotavano verso l'alto. Poggiai nuovamente il gomito sul tavolo, portando il bicchiere in vetro all'altezza delle tempie ed aggiunsi: «Non mi voglio fidanzare! Ho tutta la vita davanti e poi... quando sarà il momento lo capirò, subito, senza esitare. Non credo di aver trovato ancora la persona giusta per me, me ne sarei accorta sennò».
Terminai così quel discorso epico che lasciò a bocca aperta i tre membri del mio tavolo, poi bevvi in un sorso tutto il bicchiere, fino in fondo, e ruttai come una camionista alle cinque del mattino che imbraccia una birra ed un panino enorme.
Smontai in un batter d'occhio il loro piano perfetto tanto che, alla fine del mio monologo a prova di bomba, non proferirono parola.
Tornata a casa, mia madre scaricò la rabbia per il suo fallimento sulla predica per quel rutto maleducato, ma a me veniva solo da ridere, anche se non potevo ancora credere che avesse scelto lei il mio futuro "compagno di vita", organizzando un'accoppiata bella e buona. Tutto ciò per Edoardo era una situazione comoda, dato che lui mi veniva dietro da un bel po'.
Questo gli aveva dato il via libera per avvicinarsi a me con la benedizione di mia madre.
Mi lasciai andare, stanca e irrequieta, sul mio lettone di una piazza e mezza.
Prima di chiudere occhio, però, controllai un'ultima volta il cellulare e, come mi aspettavo, Davide aveva accettato la mia richiesta di vederci. Concordammo il posto, che poi fu il solito, e mi addormentai, finalmente, dopo una giornata piena d'alti e bassi.
 








Oltre i miei occhiDove le storie prendono vita. Scoprilo ora