[Quattordici]

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                                    Manuel

Mi svegliai decisamente presto.
Avevo le palpebre pesanti e un sonno smisurato, ma il pensiero di tutta la vicinanza che c'era stata con Simone poche ore prima mi aveva tenuto in piedi, a tratti, per tutta la notte.

Motivo per cui, alle sei del mattino, decisi di abbandonare il letto e di alzarmi.
Ne avrei approfittato per andare da lui e aspettarlo per andare a scuola, che sicuramente c'era il rischio che non si svegliasse.

Ma chi volevo prendere in giro?
Volevo vederlo, punto.
Era tutta una scusa per andare a portargli la colazione e, magari, guardarlo dormire per qualche minuto.

Alle sei e trenta ero già fuori di casa, in moto, diretto al primo bar nelle vicinanze.
Scelsi quattro pezzi di sfoglia ripiena di crema al cioccolato, me li feci incartare e pagai.

Poco prima delle sette ero fuori da casa sua.
C'era la macchina di Dante, vi lasciai la moto parcheggiata accanto.
Lo vidi spuntare fuori, tenendomi la porta aperta mentre mi rivolgeva un largo sorriso dei suoi.

- Siamo mattinieri, vedo. Simone dorme ancora.
- Lo immaginavo, ho portato la colazione, ce ne sta per tutti.
- Oh, proprio quello che ci voleva. Entra pure.

Dopo aver posato il sacchetto del bar sul tavolo, mi avviai subito verso le scale per raggiungere Simone.
Dante mi bloccò prima che potessi mettere il piede sul primo gradino.
Gli occhiali sul naso, lo sguardo leggermente preoccupato.

- Senti, Manuel, questa cosa del lavoro, siete sicuri di quel che fate? Soprattutto con la scuola.
- Prof, io gliel'ho detto a Simone che non era il caso di seguirmi con 'sta cosa. Ma sà com'è lui, no?
- Si, si lo so. Ma non parlo di lui, so com'è fatto mio figlio, specialmente se si tratta di te. Ma io sono preoccupato anche per te, Manuel. Non voglio che perdi l'anno.
- Non è un periodo dei migliori, prof. Sto provando ad aiutare mia madre, è di nuovo senza lavoro.

Dante annuí, stringendomi il braccio in una presa forte e incoraggiante.
- Stai tranquillo che tutto si risolve, okay? Ora vai a svegliare la larva, lassù.
Ridemmo insieme, prima di mettermi a proseguire per le scale.

Mi avvicinai piano alla sua stanza e lo spiai da dietro alla porta socchiusa: era immerso nelle lenzuola grigie, attorcigliate attorno al suo corpo.
Non aveva la maglia, riuscivo a intravedere le spalle scoperte e le braccia nude che abbracciavano il cuscino.
Vidi anche il tatuaggio che gli avevo fatto qualche mese prima, il ricordo di quel pomeriggio mi fece sorridere.
Posai una mano sulla superficie della porta e spinsi piano, sperando di non far rumore.

Entrai, raggiunsi il letto e mi inginocchiai per terra.
Con i gomiti sul materasso, ci posai il mento in mezzo e lo osservai per un tempo indefinito.
Sembrava un bambino, protetto dalla realtà mentre sognava chissà cosa.
Magari me.

Allungai una mano, le dita incerte a incontrare i suoi capelli ricci morbidi, che ricadevano appena sulla fronte.
Feci piano per non svegliarlo, volevo guardarlo ancora un po'.
Aveva un'espressione così serena che sarei potuto rimanere lì a fissare quella visione per ore, dimenticandomi di ogni mio problema, che davanti a lui sembrava perdere di spessore.

Era arrivato il momento di ammetterlo a me stesso, anche se ormai era da un po' che ci stavo pensando sù.

Mi ero innamorato di lui.

Di quella persona che avevo respinto tante volte e adesso volevo con tutto me stesso.
Avrei voluto infilarmi sotto le coperte con lui e restarci per il resto della mattinata, mandando a quel paese la scuola.

Ma era arrivato il momento di annunciare la mia presenza, quindi mi misi in piedi e iniziai a scuoterlo piano.
- Simó.
Lo sentii mugugnare, borbottò qualcosa e si girò dall'altro lato.
- Oh, Simó. Te devi sveglià, facciamo tardi.
Nessuna risposta e nessun cenno di riuscita del piano.

Decisi di passare alle maniere forti, che consistevano nel sedermi sulle sue gambe e sbattergli l'altro cuscino sulla testa.
Balzò a sedere all'istante, facendomi rotolare di schiena accanto a lui.

- Ma sei scemo? Che modi sono?
- Oh, ci ho provato in maniera più docile ma non te svegliavi.
- Che ci fai qua?
Faticava a mantenere gli occhi aperti e così assonnato mi sembrava ancora più bello.
"Manuel te sei proprio rincoglionito."
- Me so alzato presto e t'ho portato la colazione. Dai, alzati. Se no me magno tutto io.

Dopo qualche minuto eravamo giù, seduti a tavola ad addentare un dolce di pasta sfoglia ciascuno e due tazze di latte e caffè fumanti offerti da sua nonna.
Dante ci raggiunse con la sua tazzina di caffè fra le mani, bevve l'ultimo sorso e poi la ripose nel lavandino.
Ci rivolse un'occhiata mentre infilava la giacca.

- Ragazzi, lasciatevelo dire, siete inguardabili stamattina.
- Grazie papà, un tatto come pochi.
- Dovevo. Comunque, rilassatevi un po' ed entrate a seconda ora, vi copro io.
- Ma davvero, prof? - chiesi, quasi estasiato.
Simone rimase con la tazza a mezz'aria nel tentativo di portarsela alle labbra.
- Si, davvero. Riposatevi un pochino perché non vi si può guardare.
E se ne andò, lasciandoci increduli.

- Vabbè, a parte i complimenti, è stato carino.
- Si, ma a questo punto avrei dormito un po' di più.
- Eh ma ormai, non è che ce rimettiamo a dormí adesso.
- No, magari no. Ma possiamo stenderci.
- Simó, finisce che ci addormentiamo. Fidate.
- E allora? Altri modi per riposarci?
- Vabbè, ho capito. Andiamo, ma io t'ho avvisato.

Risalimmo in camera, Simone si tuffò sul letto di peso, le braccia allargate e la faccia sprofondata nel cuscino.

- Che fai lì impalato? Stenditi anche tu - disse.
- Ho capito ma stai al centro, 'ndo me metto?
- Vieni, ti faccio spazio.

Si scostò di lato e mi lasciai cadere accanto a lui sul fianco destro, per stargli di fronte.
Lui aveva prontamente chiuso gli occhi, come se non fosse mai sceso a far colazione e stesse tentando di proseguire esattamente da dove era rimasto.
Lavoravamo da una sola settimana, mia madre era alla disperata ricerca di un altro lavoro e noi due eravamo già a pezzi.

- Me sa che non è stata l'idea della vita quella del lavoro, eh?
- Però dobbiamo.
- Io devo, tu no, Simó. Perché lo fai?
- Perché ti voglio aiutare. Lo sai.
- Si, ma fino a che punto? Guardaci.
- Manuel, ieri sera abbiamo fatto tardi anche perché ci siamo dilungati noi.
- Ma gli altri giorni non è che ce la passavamo meglio.
- Vabbè, sei diventato tu quello che parla troppo, adesso? Basta parlare.

Si protese con la mano verso di me, con gli occhi ancora chiusi e i movimenti rallentati, posò l'indice contro le mie labbra e lo lasciò lì, una specie di carezza sospesa.

- Simo?
- Si?
- Guardami.
- Ti prego, dormiamo.
- Simone. Guardami.

Riaprí gli occhi, li concentrò nei miei e rimase in attesa.
Avevo appena perso la capacità di esprimermi, volevo sputare fuori quelle parole che mi stavano lì incastrate in gola, urlandomi di liberarle.
Deglutii.

- Credo di amarti.

Il suo sguardo improvvisamente sveglio, instabile.
Lo vidi serrare la mascella, probabilmente stava cercando un modo per dirmi qualsiasi cosa stesse pensando.
Ma non glielo lasciai fare.

Mi avvicinai, creandomi un varco nelle sue braccia.
Mi voltai per dargli le spalle e trovai la posizione ideale per incastrare il mio corpo con il suo.
Portai il suo braccio a circondarmi in vita e strinsi la mia mano nella sua.
Le dita perfettamente combacianti, intrecciate.
Sentivo il suo cuore esplodere in una miriade di battiti rimbombanti contro la mia schiena.

Era l'esatto motivo per cui non aveva mai funzionato per davvero con nessuna ragazza fra tutte quelle che avevo avuto.
Era lì, alle mie spalle.
Si chiamava Simone Balestra.
Adesso lo sapevo.

- Non andiamo a scuola. Possiamo restare così? - mi chiese, in un sussurro.
- Restiamo così - risposi. E strinsi più forte la sua mano.

La sua metà mancanteDove le storie prendono vita. Scoprilo ora