sui ricordi

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                                                                                                         a mia zia, che mi ha insegnato a immaginare


Del potere delle parole ce ne accorgiamo in maniera inconscia, credo, già da quando siamo piccoli.

Eppure, ancora a ventuno anni mi sorprendo quando mi trovo di fronte ad una parola nuova, mi commuovo di fronte ad una frase costruita con eleganza, in cui sembra che le parole si tengano a braccetto. Disposte in maniera armonica sulla pagina, danzano nello spazio del foglio per trasferirsi negli spazi della mente, e assumere sembianze nuove. Le parole che costruiscono i libri rimangono sospese, effimere come le gocce di pioggia che attraversate dalla luce formano gli arcobaleni.

Ma la vera gioia, che mi attraversa come un brivido inaspettato, è quella che provo quando le parole fluiscono dalle mie dita alla carta, attraverso la penna. Sarò antica, sarò sentimentale, ma lo scrivere a mano per me è un'arte. Mi piace la grafia delle persone, anche se è spigolosa, anche se si attorciglia, tormentata, sulla pagina. Mi piace levigare le parole, quando scrivo. Far sì che si incastrino in maniera perfetta, una concatenazione di lettere che dà vita ad un'idea.

Esiste qualcosa di più appagante? Scrivere è un atto intimo, viscerale. Per me, che ancora non ho conosciuto l'amore, quello vero, quello con la A maiuscola che fa battere il cuore e vibrare gli organi e tremare le gambe, scrivere è un atto d'amore.

È lasciare che la gente mi veda, che veda ogni piccola ruga, ogni minuscolo neo, che scavi attraverso la mia pelle pallida, che arrivi alle mie ossa che certi giorni sento così fragili da avere paura di potere sbriciolarmi. Lascio fluire le parole, mi libero del caos che sento dentro, lascio che il Vuoto che mi attanaglia l'anima provi a richiudersi. A volte scrivere è semplicemente una maniera per fuggire, per dare vita ad un rifugio.

Quando ero piccola e stavo imparando a leggere mi piaceva immaginare di potere cavalcare le lettere. Le vedevo fluttuare, staccandosi dalla pagina, e venirmi incontro, offrendosi di portarmi in giro sulla loro groppa. Già allora sognavo molto ad occhi aperti. I miei migliori amici erano fatti di parole ed inchiostro, il mio mondo odorava di carta dalla filigrana leggermente ruvida. Avevo un libro, uno di quei libretti cartonati, il cui protagonista era uno di quei vermetti che si annidano nella carta. Si chiamava Ben, ed era un mangialibri. Mi piaceva considerarmi come lui, una mangialibri.

I miei genitori mi chiamavano così, anche se negli anni le mie abitudini per quanto riguarda la lettura sono cambiate. Ma l'amore profondo per le parole è rimasto.

La memoria è uno scrigno, in cui conserviamo, con fare geloso, i nostri averi più preziosi: i ricordi. È un'immagine confortante, ma la memoria non è uno scrigno, è un labirinto dalle pareti fragili. Così fragili che a volte basta un nulla per farlo crollare. Che la mia memoria possa tradirmi, un giorno, che possa abbandonarmi, sfilacciarsi, mi terrorizza.

Una delle mie paure più grandi e profonde è quella di svegliarmi, un giorno, senza ricordare. Gli uomini sono costruiti di ricordi, di piccoli frammenti di esperienze già vissute. Ed è vero che ciò che fa più male sono i ricordi. A volte si incastrano nell'anima come schegge, e tornano a dolere quando meno ce lo aspettiamo.

Alle volte hanno lasciato una ferita aperta, sanguinante, che non c'è modo di ricucire, uno squarcio che tira e si deforma, come quando ci si smaglia una calza. Non è vero che nei ricordi ci si rifugia, dai ricordi si scappa. E il perché è anche facile da capire.

Rifugiarsi in un ricordo è come prendere un antidolorifico quando si ha un dolore forte ed insistente. Il dolore viene eliminato per qualche ora, ma alla fine ritorna, ancora più forte. Così accade quando tentiamo di trovare sollievo nei meandri della memoria, ma il sollievo, quando arriva, è effimero, serve solo a ricordarci quello che abbiamo perso, che avevamo e ora è lontano da noi. Per questo i ricordi, per me, sono come dei gatti randagi o dei fiori di oleandro. Affascinanti, intriganti, ma pericolosi. Perché graffiano e avvelenano.

I ricordi possono essere organizzati in tipologie, dai meno pericolosi a quelli che proprio non lasciano scampo. C'è il ricordo di una vacanza con le amiche, che fa sorridere anche se evoca nostalgia; il ricordo di un tramonto particolare, di un gelato mai assaggiato prima, della prima volta al cinema, o al teatro. Questi sono i ricordi che ci fanno andare avanti, che ci offrono conforto.

Poi ci sono i ricordi che, quando affiorano, sembrano confortare, ma in realtà sono lame che ci trafiggono. La voce di una persona amata che ti chiama, il ricordo di un amore che non sarà più. Con questi arriva anche il senso di colpa, e ti domandi perché, perché non hai afferrato quel momento? Perché non lo hai tenuto stretto allora? Perché hai permesso che divenisse un ricordo, pallida infestazione di questo castello in rovina che è la tua anima?

O forse i ricordi più pericolosi sono quelli che credevamo di avere dimenticato? Quelli che, sollecitati da una sensazione o da un evento, tornano a galla. Noi pensavamo ingenuamente di averli scacciati, sepolti, rinchiusi nelle camere più buie della nostra psiche. E quelli si liberano e colpiscono. Mi capita spesso di bloccarmi, per la strada o per le scale, perché avverto il profumo familiare di una persona a cui volevo bene come se fosse una madre. Mi capita di voltarmi, guardarmi intorno come un cane che fiuta la preda. Ma la preda sono io, e quel ricordo doloroso non è altri che il cacciatore che mi ha braccata.

Alla fine, ci sono quelli che in teoria non sono ricordi. Sono semplici echi, spetri di un'eventualità che abbiamo sfiorato ma che non abbiamo vissuto. Come visioni prodotte da una febbre troppo alta. A volte mi domando se smetterò mai di lasciarmi incantare e raggirare da questi minuscoli frammenti di luce. 

Che alla fine mi accecano, come i frammenti dello specchio della Regina delle Nevi.



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