La mia nonna materna non l'ho conosciuta. Di lei mi rimane soltanto quache antica foto color seppia.
Vi appare come una giovane donna dai morbidi capelli castani, mossi ad onde che si raccolgono sulla nuca.
Gli abiti, i gioielli che l'adornano sono degli anni '20, '30 del secolo scorso. Il corpo snello è adagiato secondo le pose dell'epoca in una sedia a dondolo di paglia di Vienna.
Il sorriso appena accennato, crea due fossette sulle gote lisce e negli occhi circondati da ombre, ha lo sguardo sognante di chi ha tutta la vita davanti.
La mia nonna paterna era un donnino alto un metro e cinquanta e in lei si era proprio concretizzato il detto: "Nelle botti piccole c'è il vino buono". In effetti il vino buono che lei conteneva era un temperamento inarrestabile di fronte a qualunque ostacolo. La sua cucina, quando da piccola mia madre mi portava in visita a casa sua, mi appariva come un antro stregonesco dominato da un vasto camino, dove erano presenti alari a sorreggere ceppi accesi e graticole su cui venivano arrostiti vari tipi di carne. Una delle graticole era usata per arrostire fegato di maiale avvolto nella rete e guarnito con alloro.
La rete al calore della brace rilasciava il suo grasso sul fegato, mantenendolo morbido.
Un'altra graticola era per la carne di capretto, un'altra per la salsiccia e un'altra per i tordi, che non potevano certo mancare, essendo tutti gli uomini della famiglia dei cacciatori. Questa disposizione di graticole sulle braci, durò fino alla morte di mio nonno. Poi mia nonna si dette all'uncinetto, ché prima, quando era moglie e madre, non aveva mai potuto praticare, poiché troppo occupata a spiumare uccelli a causa della passione per la caccia dei figli e del marito. Le graticole venivano però ripristinate all'arrivo
di zio Michele da Roma dove abitava;
zio Michele era il fratello maggiore di mio padre e io e i miei partecipavamo ai pranzi di mia nonna per quell'occasione. Mia madre dava il suo contributo alla preparazione del pranzo, mescolando di tanto in tanto nel paiolo sospeso sui ceppi, un sugo di lepre e tra una mescolata e l'altra impastava farina con acqua appena tiepida da trasformare in pasta, che avremmo mangiato come primo.
In fondo alla cucina dimorava un forno a legna e al suo interno venivano cotte le patate in tortiera, profumate al rosmarino. A un certo punto della mia vita, intorno ai nove anni e durante la preparazione dei pranzi di cui parlo, fui messa a girare ininterrottamente
su un fornello a gas, un mestolo nella miscela di latte, farina e zucchero indispensabile per ottenere
una polenta dolce, base di uno dei dolci della mia infanzia: le fritture di latte. Quella crema dolce veniva sbattuta sul marmo del tavolo e pareggiata prima con il mestolo e poi con il dorso di un lungo coltello.
Tutte queste operazioni portavano ad ottenere uno spessore di crema di un centimetro e mezzo circa.
La polenta dolce quindi si lasciava raffreddare e infine la si tagliava a rombi, che venivano infarinati e fritti. I rombi dorati si accomodavano poi in piatti con il giro blu e un gran fiore rosa al centro.
So che questi dettagli possono sembrare inutili, ma anche allora si sapeva che l'occhio vuole la sua parte. Infine le fritture di latte venivano cosparse di zucchero, quello semolato, mai zucchero a velo che sarebbe stato inghiottito dalla squisita crosticina delle fritture, senza dare loro ulteriore croccantezza.
Per tornare al mestolo che mi era stato affidato, non se ne doveva mai interrompere la rotazione nella miscela, così mi raccomandava la nonna, se non fosse venuta lei a controllare e i giri dovevano essere sempre nello stesso senso, pena, come minimo, la formazione di antiestetici grumi nella delicatissima polenta, se non addirittura l'impazzimento della stessa.
Nel darmi tutte queste indicazioni, la mia ava mi teneva sottocontrollo con il suo sguardo più trafittivo.
Io fingevo di essere terrorizzata e lei si allontanava soddisfatta dopo quelle istruzioni, non prima però di aver abbassato la fiamma al minimo, accompagnando il gesto con altre spiegazioni volte a farmi capire, che la crema per le fritture di latte aveva bisogno di un calore dolce e che per questo lei si era piegata a comprare l'ultimo ritrovato della tecnologia casalinga: il fornello a gas.
"Il ritrovato" era stato collocato in una piccola alcova ricavata nel muro centenario e che fino a poco tempo prima alloggiava i barattoli del sale, dello zucchero, della farina e del caffè. Mia madre, quando ci passava davanti per cercare qualche utensile, lo guardava teneramente come fosse stato un bebè nella culla.
Il pranzo veniva concluso, almeno d'inverno, da arance e mandarini,
a cui seguivano le frittelle di latte e un moscato trasparente che mi sembrava profumare di fragole.
Le arance erano così grandi da non riuscire io a tenerle in mano per sbucciarle, così era il mio soccorrevole zio Michele a sbucciarle per me. Con l'occasione intagliava la buccia a forma di occhiali, che poi inforcava per farmi ridere e alla mia risata si univano allora anche i miei cari, inebriati dalla vista e dai profumi che scaturivano dal cibo, dal vino rosso di accompagnamento alla carne, che a me era interdetto tranne per qualche piccola quantità in fondo a un bicchierotto sfaccettato.
Mi appariva tutto come uno spasso: la nonna in potere, la mamma affaccendata,
lo zio e il papà seduti davanti al focolare a raccontare storie, che li facevano sorridere e mostrare canini appuntiti, come si conviene a discendenze di cacciatori mangiatori di carne.
Ora tutto questo è passato, ma nella mia mente ha formato la base sicura, che mi insegna ancora ad amare.P.S.: I piatti di questo racconto sono piatti lucani, che certo si usano anche in altre regioni, tranne le fritture di latte, almeno per quello che ne so io.
Grazie a chi vorrà leggere.🍀🍀🍀🍀🍀🍀🍀🍀🍀🍀🍀🍀
Ho scritto questo racconto per il contest:
"L'Italia tra un morso e un altro... Come ti prendo per la gola.
Contest indetto da @NicoleMoonlight