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Piccole lacrime, appena sotto le ciglia.

Le incorniciai il volto con le mani.

"Sono qui... ehi..." e la abbracciai, stringendola al mio petto.

Per alcuni minuti restammo così, immobili, lei stretta a me.

Ripercorsi mentalmente tutte le tappe della serata e cercai di capire cosa poteva essere andato storto, se avevo fatto qualcosa o se qualcuno poteva averla ferita inconsapevolmente. Le sue mani, al bar, quando stringevano le mie.

Si staccò lentamente da me.

"Scusa..." fece per allontanarsi, portandomi con sé.

"Che succede?" mi bloccai, costringendola a voltarsi.

"Niente Mattia, niente..." la guardavo duro e triste "...è stata una serata che mi ha messa alla prova." mi guardava stanca "E sinceramente non ne avevo bisogno."

Aveva gli occhi di chi non dorme da giorni e sa che non dormirà.

"Perchè? Ti hanno fatto qualcosa?" sentivo di aver bisogno di risposte, un bisogno talmente impellente da procurarmi un fastidio fisico.

"No. Non hanno fatto nulla, non stasera." si staccò da me "Ma io lo sentivo, sentivo che avevano ancora addosso quei loro merda di sguardi come mesi fa. Sono stufa Mattia." si strofinò la faccia "Lo so che non è passato tanto, ma basta."

"Ma basta cosa?" ero confuso e mi sentivo nervoso. C'erano così tante cose che non mi tornavano e il suo atteggiamento aggressivo mi faceva sentire attaccato.

"Basta con tutto!" alzò le braccia al cielo "Sono stufa di dover essere sempre costretta a far finta che vada tutto bene!" stava gridando "Non voglio, non voglio più essere costretta a stare bene, perché bene non sto!"

"Ma cosa stai dicendo?!" non la seguivo, non aveva senso.

"Sto dicendo che tutto questo è finto. Non li volevo vedere, non voglio stare qui, non voglio essere qui!" le tremava la voce.

"Dove dovresti essere scusa?" cercai di avvicinarmi "Hai un lavoro qui, una casa..."

"No! Non è vero Mattia. Io..." aveva il respiro affannato "Io non lavoro. E non ho una casa qua, non è casa mia. Sono costretta a stare qui perché a casa è tutto uno schifo."

Come sarebbe a dire che non lavori?

"Vera, ti prego, spiegami." stava indietreggiando a piccoli passi.

"No, non devo spiegarti un bel niente, niente!" tremava e si guardava attorno come a cercare una scappatoia, ma eravamo in piazza.

La guardai. Presi le sigarette dalla tasca, ne mesi una in bocca e le passai il pacchetto.

Lo prese in silenzio e si servì.

Senza dire nulla ci scambiammo l'accendino.

Tra un tiro e l'altro cercai le parole e la pazienza.

"Non mi devi spiegare nulla." affermai, deciso, ma deluso "Il punto è che io sono disposto a sentirti, Vera. Ad ascoltare qualunque sia il motivo della tua rabbia" sentivo la voce come una candela al vento "qualsiasi cosa ti sia successa."

Lei guardava a terra.

"Va bene." mormorò.

"Okay." perché non potevo dire nulla. Avevo bisogno di calmarmi, perché tutto quello che stava succedendo era completamente assurdo, incoerente con ciò che era successo fino a quel momento.

O, forse, nemmeno così tanto. Ricordai quando eravamo alla gradinata. La sua borraccia, il suo alito, il suo evitare le risposte, il sentirmi dire "non sono affari tuoi", io che le avevo detto che volevo solo capire.

Avevo già pianto per quel suo atteggiamento, lei aveva detto già che non ce la faceva, me lo aveva detto. Perché avevo pensato che dopo quel tempo passato assieme la situazione sarebbe dovuta essere diversa? Non avevamo che parlato del più e del meno, non mi aveva mai detto nulla di nuovo, non si era mai aperta. Non avevo mai scoperto nulla di quei rovi che le soffocavano il respiro.

"Vivo da mio zio perché a casa non ci posso stare. E gli altri lo sanno." iniziò, la voce che sembrava un sussurro "Mi hanno vista sul fondo, ed è come se continuassero a vedermi così. Lo odio." fissò davanti a sé, lontana da me.

"E hai deciso di vederli perché te l'hanno chiesto?" provai a cercare il filo che collegava tutto.

"Sì. Come se dovessero controllare che la situazione è cambiata." sospirò "Ma non è cambiato niente, sono solo scappata."

Ripensai a me stesso. Sapevo cosa voleva dire cambiare stanza senza cambiare la realtà.

"A volte allontanarsi è un modo per cercare di ritrovare almeno se stessi." stavo parlando più al me di qualche anno prima, che alla Vera del presente "Per ricostruirsi un po' ed avere la forza di tornare e lottare."

Vera si girò a guardarmi. Mi sembrò quasi che anche lei stesse parlando al vecchio Mattia.

"Il problema è che fa male. Anche se sei lontano, la testa torna sempre lì. Come la coscienza sporca."

Annuii. Lo sapevo. Era così.

"Mi dispiace che tu ti senta così" mi allontai a buttare il mozzicone che stavo torturando da qualche minuto e Vera mi seguì.

"Mi dispiace che tu sappia di che parlo." mi guardò e, girandomi verso di lei, incontrai i suoi occhi.

Abbozzai un sorriso.

"Mio papà, prima di morire se n'è andato." sentivo i miei occhi senza vita. "Poi è tornato, ma ha passato un periodo lontano da noi. Mia madre non capiva cosa avesse fatto ed io non avevo idea di come aiutarla. Ero arrabbiato, deluso, ma soprattutto confuso."

"In che senso se n'è andato?" chiese Vera, col tono di chi non sa come fare le condoglianze.

Non volevo rispondere e speravo che l'argomento emergesse in un altro contesto.

"Ha detto a mia mamma che voleva divorziare ed è andato a vivere dai miei nonni. Allora i miei si sono separati, finché non ha ammesso di essere malato. Allora si sono parlati ed è tornato da noi." ci pensai un attimo "Per restare insieme fino alla fine."

Si era ammutolita ma continuava a fissarmi, mentre io evitavo di incrociare il suo sguardo.

"Per mia madre non sono mai abbastanza, non vado bene. Mio padre non è mai a casa e l'ha sempre lasciata sola." mi girai verso quella voce senza emozioni. "Penso che l'abbia ferita molto e lei abbia spostato tutto su di me."

Le accarezzai la guancia con delicatezza.

"Vuoi venire da me?" mi chiese.

"Sì."

Ci incamminammo, vicini, in silenzio.

Parlami ancora dei fiori d'arancioDove le storie prendono vita. Scoprilo ora