5. La storia del mio matrimonio

19 0 0
                                    

Nella mente di un giovine di famiglia borghese il concetto di vita umana s'associa a quello della carriera e nella prima gioventù la carriera è quella di Napoleone I. Senza che perciò si sogni di diventare imperatore perché si può somigliare a Napoleone restando molto ma molto più in basso. La vita più intensa è raccontata in sintesi dal suono più rudimentale, quello dell'onda del mare, che, dacché si forma, muta ad ogni istante finché non muore! M'aspettavo perciò anch'io di divenire e disfar- mi come Napoleone e l'onda.
La mia vita non sapeva fornire che una nota sola senz'alcuna variazione, abbastanza alta e che taluni m'invidiano, ma orribilmente tediosa. I miei amici mi conservarono durante tutta la mia vita la stessa stima e credo che neppur io, dacché son giunto all'età della ra- gione, abbia mutato di molto il concetto che feci di me stesso.
Può perciò essere che l'idea di sposarmi mi sia venuta per la stanchezza di emettere e sentire quell'unica nota. Chi non l'ha ancora sperimentato crede il matrimonio più importante di quanto non sia. La compagna che si
85

sceglie rinnoverà, peggiorando o migliorando, la propria razza nei figli, ma madre natura che questo vuole e che per via diretta non saprebbe dirigerci, perché in allora ai figli non pensiamo affatto, ci dà a credere che dalla mo- glie risulterà anche un rinnovamento nostro, ciò ch'è un'illusione curiosa non autorizzata da alcun testo. In- fatti si vive poi uno accanto all'altro, immutati, salvo che per una nuova antipatia per chi è tanto dissimile da noi o per un'invidia per chi a noi è superiore.
Il bello si è che la mia avventura matrimoniale esordì con la conoscenza del mio futuro suocero e con l'amici- zia e l'ammirazione che gli dedicai prima che avessi sa- puto ch'egli era il padre di ragazze da marito. Perciò è evidente che non fu una risoluzione quella che mi fece procedere verso la mèta ch'io ignoravo. Trascurai una fanciulla che per un momento avrei creduto facesse al caso mio e restai attaccato al mio futuro suocero. Mi verrebbe voglia di credere anche nel destino.
Il desiderio di novità che c'era nel mio animo veniva soddisfatto da Giovanni Malfenti ch'era tanto differente da me e da tutte le persone di cui io fino ad allora avevo ricercato la compagnia e l'amicizia. Io ero abbastanza cólto essendo passato attraverso due facoltà universita- rie eppoi per la mia lunga inerzia, ch'io credo molto istruttiva. Lui, invece, era un grande negoziante, igno- rante ed attivo. Ma dalla sua ignoranza gli risultava for- za e serenità ed io m'incantavo a guardarlo, invidiando- lo.
86

Il Malfenti aveva allora circa cinquant'anni, una salu- te ferrea, un corpo enorme alto e grosso del peso di un quintale e più. Le poche idee che gli si movevano nella grossa testa erano svolte da lui con tanta chiarezza, svi- scerate con tale assiduità, applicate evolvendole ai tanti nuovi affari di ogni giorno, da divenire sue parti, sue membra, suo carattere. Di tali idee io ero ben povero e m'attaccai a lui per arricchire.
Ero venuto al Tergesteo per consiglio dell'Olivi che mi diceva sarebbe stato un buon esordio alla mia attività commerciale frequentare la Borsa e che da quel luogo avrei anche potuto procurargli delle utili notizie. M'assi- si a quel tavolo al quale troneggiava il mio futuro suoce- ro e di là non mi mossi più, sembrandomi di essere arri- vato ad una vera cattedra commerciale, quale la cercavo da tanto tempo.
Egli presto s'accorse della mia ammirazione e vi cor- rispose con un'amicizia che subito mi parve paterna. Che egli avesse saputo subito come le cose sarebbero andate a finire? Quando, entusiasmato dall'esempio del- la sua grande attività, una sera dichiarai di voler liberar- mi dall'Olivi e dirigere io stesso i miei affari, egli me ne sconsigliò e parve persino allarmato dal mio proposito. Potevo dedicarmi al commercio, ma dovevo tenermi sempre solidamente legato all'Olivi ch'egli conosceva.
Era dispostissimo ad istruirmi, ed anzi annotò di pro- pria mano nel mio libretto tre comandamenti ch'egli ri- teneva bastassero per far prosperare qualunque ditta: 1. Non occorre saper lavorare, ma chi non sa far lavorare
87

gli altri perisce. 2. Non c'è che un solo grande rimorso, quello di non aver saputo fare il proprio interesse. 3. In affari la teoria è utilissima, ma è adoperabile solo quan- do l'affare è stato liquidato.
Io so questi e tanti altri teoremi a mente, ma a me non giovarono.
Quando io ammiro qualcuno, tento immediatamente di somigliargli. Copiai anche il Malfenti. Volli essere e mi sentii molto astuto. Una volta anzi sognai d'essere più furbo di lui. Mi pareva di aver scoperto un errore nella sua organizzazione commerciale: volli dirglielo su- bito per conquistarmi la sua stima. Un giorno al tavolo del Tergesteo l'arrestai quando, discutendo di un affare, stava dando della bestia ad un suo interlocutore. L'avvertii ch'io trovavo ch'egli sbagliava di proclamare con tutti la sua furberia. Il vero furbo, in commercio, se- condo me, doveva fare in modo di apparire melenso.
Egli mi derise. La fama di furberia era utilissima. In- tanto molti venivano a prender consiglio da lui e gli por- tavano delle notizie fresche mentre lui dava loro dei consigli utilissimi confermati da un'esperienza raccolta dal Medio Evo in poi. Talvolta egli aveva l'opportunità di aver insieme alle notizie anche la possibilità di ven- dere delle merci. Infine – e qui si mise ad urlare perché gli parve d'aver trovato finalmente l'argomento che do- veva convincermi – per vendere o per comperare van- taggiosamente, tutti si rivolgevano al più furbo. Dal me- lenso non potevano sperare altro fuorché indurlo a sacri- ficare ogni suo beneficio, ma la sua merce era sempre
88

You've reached the end of published parts.

⏰ Last updated: Feb 16, 2022 ⏰

Add this story to your Library to get notified about new parts!

La coscienza di Zeno Where stories live. Discover now