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Altea

«L'appartamento è accogliente?» tiene stretto il cappotto fra le dita e annuisce con un sorrisetto.
«Da quando sei andata via preparo solo il pranzo e la cena, il pomeriggio mi è concesso tornare a casa molto prima» dice, dirigendosi verso il salotto. Il profumino di tacchino aleggia nell'aria, sul caminetto le stesse foto di quando ero bambina, la copertina azzurra ripiegata sul divanetto e il rifugio di Leopold ai piedi del pendolo. Tre mesi sono passati dal trasferimento ed è tutto posizionato nel medesimo modo. Il televisore sintonizzato sul canale sportivo e i manuali da cucina sul ripiano. Scosto una ciocca di capelli dal viso ed inserisco una mano nella tasca anteriore dei jeans, dondolo sui talloni a disagio.
«Cosa ci fai impalata lì? Tuo padre arriverà a momenti...» rimprovera con tono dolce.
«Sono venuta a prendere delle cose, devo andare via...» considero l'idea di svignarmela all'istante, ma la voce profonda di mio padre blocca ogni via d'uscita. Osserva il viso pienotto, le braccia paffute e le gambe non più gracili. Ho scoperto di saper cucinare molto bene, con l'aiuto di Jordan ovviamente, i piatti messicani sono il mio forte. Gli ho insegnato alcune parole straniere e lui mi ha spiegato come infliggere un colpo preciso. Ho letto alcune parti di libri famosi e ascoltato un compositore famoso che piace alla sua famiglia. Ci siamo rotolati fra le lenzuola come due sposini in luna di miele, confessati molte cose e amato ogni millimetro. Tre sono stati i giorni più passionali della mia vita, stare al suo fianco è qualcosa di meraviglioso. Tuttavia non abbiamo definito il nostro rapporto, chiarito le nostre posizioni e stabilito la connessione. Non è pronto per una storia d'amore. La paura di immischiarmi negli affari dei Los Slavadores frena ogni tipo di dichiarazione. Comprendo a pieno come si sente, un passo falso è tutto potrebbe sgretolarsi.
 «Non ho ancora ripulito le tue cose, tutto è come l'hai lasciato» spiega Maggie, afferra un mestolo e controlla la cottura delle patate.
«Ho chiesto di spostare i libri di tua madre nella camera accanto alla tua, spero non ti dispiaccia» allenta il nodo della cravatta e liscia i calzoni con le dita. Nego pazientemente, procedo verso le scale ed entro in quella che una volta era la mia baia sicura. I muri sono spogli, non ci sono più i poster dei Maroon 5 a decorarli. Sulla scrivania non ci sono più fogli sparsi e inchiostro, solo scatoloni ricolmi di foto. Priva di colori, ecco com'è adesso.
Abbranco una foto e sfioro con il polpastrello il viso curato di mia madre, il naso all'insù e le rughette d'espressione sulla fronte. I capelli biondi, le gambe lunghe e snelle. Amelie Cooper, 1966 California Camping Village, recita sul retro. Il mare alle spalle e l'azzurro del cielo come sfondo. Mia madre avrebbe potuto davvero sfilare per qualche agenzia di moda, era affascinate ed audace. Cerco qualche oggetto di mia proprietà, ma non c'è nulla che possa ornare la casa in cui vivo. Sollevo il materasso privo di lenzuola, il quadernetto cade sul pavimento in un tonfo. La corda viola arrotolata sulla prima pagina è stata rovinata dalla pressione, gli sticker degli animali inseriti in una piccola taschina di carta. Scivolo sul pavimento pronta a rivivere gli anni più duri: l'adolescenza. Sfoglio i ricordi con cautela.

Mia madre è ferma lì, stesa sul divano. La bottiglia di Jack Daniel's stretta nel palmo e il televisore sintonizzato su uno stupido programma di cucina.
''Altea!'' strilla.
''Portami le medicine!'' sbraita.
Il tono aspro ed amaro, inghiotto la saliva e afferro le pasticche dal ripiano, cerco di non incrociare il suo sguardo. Ho dodici anni compiuti da tre giorni, oggi è il 26 Aprile e mia madre ha avuto una delle solite crisi. L'arredo al piano di sopra è completamente distrutto, i vestiti sono raggruppati in un angolo remoto della camera e mia padre fortunatamente non è ancora rincasato.
''Sistema tutto prima che arrivi tuo padre!'' un bagliore di paura attraversa le iridi, il timore di essere abbandonata risuona come una melodia struggente e malinconica. Freno la voglia di esplodere, strascico i piedi sulle scalinate. Ho dodici anni e vorrei solo essere normale. Raccolgo i cocci di una cornice e sfrego la mano sulle ginocchia, il vetro taglia in due le nocche arrossate. Il dolore in pochi secondi s'espande in tutto il corpo. Dove sei quando c'è bisogno di te? Dov'è Dio quando lo imploriamo?
Il sangue macchia il tappeto bianco, squassa dei singhiozzi cerco riparo fra le lenzuola. Papà?
''Bambina mia'' carezza la testa poco nascosta, scosta le coperte e sfila dalla tasca un cioccolatino.
''Tua madre si è addormentata, puoi uscire adesso''
''Chiamerò qualcuno per sorvegliare entrambe'' mostra le rughette d'espressione.
''Ti piacerebbe averne una?'' annuisco freneticamente, gli mostro le mani ferite e abbasso il capo.
''Va tutto bene, vado a prendere il kit...andrà tutto bene'' mi rivolge un ultimo sguardo prima di dileguarsi oltre la porta.
Torna presto, non lasciarmi di nuovo sola.

Quella mattina mio padre corse subito a richiedere qualcuno che si occupasse di me, della casa e di mia madre. Maggie mi promise che non avrei più riassettato cose non mie, sollevato pezzi di ceramica e piegato abiti strappati. Le credetti, parole e promesse comprese. Ha ricoperto perfettamente la figura che mi è mancata, resterà impressa nel mio cuore per sempre. L'unica certezza che ho avuto, il mio numero d'emergenza. Concludo la lettura, custodirò questo quadernetto come un gioiello prezioso. Non aprirò mai più questo capitolo, l'epilogo è tutto ciò che voglio scrivere.
«Sapevo di non dover toccare lì sotto...» sussurra la donna sul margine della porta. La mano a mezz'aria e le spalle ricurve, compie alcuni passi e si ferma accanto alla poltrona.
«Ti ringrazio per averlo protetto» mormoro, stringo forte le dita attorno al camice.

«Grazie per esserti presa cura di me» incappo nelle iridi scure, velate da un leggero coinvolgimento emotivo. Non le ho mai manifestato tutta la gratitudine e la riconoscenza che provo. Non è il momento adatto e non lo sarà mai, eppure ci riesce. Intuisce l'affetto e la percezione di sé attraverso i miei occhi.
«Non essere sciocca, ti voglio bene Thea.
Difficile non volertene, sei una ragazza rara» carezza la testa.
«Il pranzo è pronto...resta qui»

*

Controllo le scatole nel portabagagli e scendo con calma dall'auto. Clicco il pulsante di chiusura più volte, non si è mai troppo prudenti. Il bar è poco affollato, gli esami per il trimestre sono appena iniziati. Osservo alcuni atleti chini sui libri, la scuola migliore dista moltissimo. Mi svegliavo all'alba e tornavo nel tardo pomeriggio, sfinita crollavo sul tappeto. Ho sempre avuto un buon metodo di studio, non mi sono mai ridotta all'ultimo, ma non sono nemmeno mai stata la migliore. Il bullismo ha sempre influito sul rendimento, molti giorni mi assentavo, in altri fingevo di stare male. Non ho mai avuto un Rifugio tutto mio come quello di Jay, ho sempre cercato riparo nei negozi vintage.
«Altea!» sento spingermi per le spalle, roteo il capo verso l'artefice. Le gambe possenti di Nate sono strette in un pantalone largo, il sedere tondeggiante richiama l'attenzione di molte donne.
«Te ves muy bien mi amor» schiocca un bacio sulla fronte e annusa, del tutto, i miei capelli.
«Adoro il profumo! Che flagranza è?» chiede, alzo le spalle.
Jordan ha dimenticato la boccetta di shampoo nella mia doccia, non avevo quella di scorta, e ho usato la sua.
«Non lo so, Nate. Come stai?» cerco di annullare la precedente domanda, comincia a farfugliare discorsi sconnessi. Balza dal lavoro in ufficio, alla nuova collezione primavera/estate del suo brand.
 «Cosa vi porto?» tossisco forte, Nate batte il palmo sulla schiena. Lowell sorride, i denti bianchissimi e le fossette ai lati delle guance. Le guance piene e rosee. Le iridi azzurre e profonde come cristalli.
Il ragazzo al mio fianco socchiude le labbra, folgorato dalla bellezza del biondo. Concordo con i pensieri che fluttuano nella sua testa, un angelo caduto dal paradiso.
«Cheesecake ai mirtilli per me, grazie Low» abbasso lo sguardo sulle dita intrecciate. Il moro ammicca al nomignolo e richiede lo stesso.
«Low?» sgrana gli occhietti.
«Ci incontriamo spesso al market, vero?» i ricci spuntano dal bancone. Annuisco, tenendo la forchetta.
«Mi chiedevo...hanno inaugurato un nuovo luna park, ti andrebbe di venire con me?» espone, la ceramica produce un suono sordo. Un calcio arriva dritto al mio polpaccio, fulmino malamente Nate.
«Maccerto! Altea mi stava proponendo proprio di andarci!» strizza l'occhio.
«Oh perfetto allora! Venerdì?»
Annuisco, non sono maleducata.
E poi sono belle le giostre, no?

The Boxer's Clan.Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora