23. La sorpresa.

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«Perché non possiamo tenerlo?» singhiozzai stringendo tra le mani un gatto.
L'avevo trovato per strada qualche ora prima e quando mi resi conto della sua zampetta sanguinante lo raccolsi dall'asfalto bagnato e lo portai a casa con me.
«Sai bene che a mamma non piacciono, Faith. Tu vuoi vederla arrabbiata? Perché io no e sono stanca di vederti piangere per questo» sospirò Paige pensierosa, prima di allungarmi una mano per convincermi ad alzarmi dal pavimento su cui ero raggomitolata.
Amavo gli animali, ne avevo sempre voluto uno ma mamma non ci aveva mai permesso di tenerne in casa.
Li disprezzava, li trovava inutili.
Tirai su col naso e mi sollevai dal parquet in legno, prima di udire la porta d'ingresso richiudersi con un tonfo.
In quel preciso istante compresi la gravità della situazione, quel rumore mi bastò a risvegliarmi dalla tristezza che mi avvolgeva nel vedermi costretta a riportare quel povero gattino per strada.
Cercai qualsiasi modo per nascondere quella palla di pelo grigia che non faceva altro che raggomitolarsi tra le mie braccia, quando lei fece ingresso in camera.
Paige si piazzò davanti la mia figura tremante, quando mia madre la allontanò con un gesto fulmineo.
«Non impari mai, Faith» sputò sprezzante, rivolgendomi uno sguardo carico di odio.
«Quante volte devo ripeterlo? Non voglio altre bestiacce oltre te in questa casa. Voglio fuori di qui quel gatto. Adesso» tenne un tono basso ma duro, talmente duro che parve graffiarmi l'animo.
Ero sua figlia, come poteva dirmi una cosa del genere?
Abbassai il capo e mi trascinai di peso fino alla porta d'ingresso che si trovava al piano inferiore della casa, prima di aprire la porta e uscire fuori.
L'aria primaverile e il profumo di fiori mi inebriarono le narici, riaccendendo tutti i miei sensi.
Poggiai il piccolo gatto sul prato e corsi a raccogliere una margherita da portare alla mamma- magari mi avrebbe perdonata- ma quando mi avvicinai alla porta la trovai chiusa a chiave.
Passai una buona mezz'ora a bussare insistentemente, ma nessuno aprì fino all'ora di cena.
Mamma mi aveva lasciata fuori per ore e, nonostante non fosse la prima volta, la constatazione che non mi volesse bene come ne voleva a Paige mi colpì come un pugno nello stomaco.

*

Mi svegliai di soprassalto ripensando all'incubo che mi aveva torturata tutta la notte.
Non avevo le forze di alzarmi da quel letto che sembrava avermi inghiottita, ma un profumo di pancake e fragole risvegliò la mia fame.
Stropicciai gli occhi e dopo aver sbadigliato mi diressi in cucina, scendendo quelle scale che sembravano essere infinite.

La visione della sua schiena nuda mi fece uno strano effetto, proprio come la prima volta. In realtà non ricordavo molto di quella notte, avevo bevuto un po' troppo per ricordarne i particolari, ma percepii che quella fu la stessa reazione che ebbi quando lo vidi per la prima volta.

Mi avvicinai a lui e avvolsi le mie braccia pallide attorno la sua vita, sentendolo irrigidirsi.
Nonostante tutte le volte in cui ci eravamo sfiorati, continuava a stupirsi quando gli afferravo la mano o quando lo abbracciavo. Non gli piacevano molto quei gesti improvvisi.

«'Giorno Noah» mormorai posandogli un piccolo bacio sulla schiena, riuscendo quasi a percepire i suoi muscoli rilassarsi.
Girò un pancake e dopo qualche secondo lo ripose in un piatto bianco, sopra una torre fatta a sua volta di pancakes.
Noah si voltò verso di me e con un gesto rapido mi afferrò per i fianchi e mi sollevò, costringendomi a sedere sul tavolo.

Non disse nulla, non rispose neanche al mio buongiorno.
Si preoccupò piuttosto di ancorare le mani ai lati dei miei fianchi poggiando i palmi sul marmo del ripiano, incastrando le sue iridi nelle mie.
Osservai quegli occhi color cioccolato con un'insistenza tale che per un attimo mi parve di vederci il mio riflesso dentro.
Noah inumidì le labbra prima di poggiarle sulle mie dando vita ad un bacio tutt'altro che casto.
Sembrava intenzionato a sbranarmi, quasi come se temesse di non vedermi più da un momento all'altro.
Poggiò una mano sul mio ginocchio per allontanarlo dall'altro, piazzandosi tra le mie gambe.
Nonostante fossi seduta sul tavolo, si ritrovò comunque costretto a doversi abbassare un po' per poter raggiungere il mio viso.
La sua mano si spostò dal ginocchio ai fianchi, stringendoli piano come se volesse vederli impressi tra le sue dita.

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