𝟙.𝟚𝟞 - 𝔾𝕚𝕠𝕧𝕖𝕕ì

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2/06/24
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La solita stanza dai colori cupi, la solita aria soffocante che la riempiva, i soliti macchinari terrificanti, la solita paura che si aggirava dentro di lei

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La solita stanza dai colori cupi, la solita aria soffocante che la riempiva, i soliti macchinari terrificanti, la solita paura che si aggirava dentro di lei. La differenza, però, era che forse si era cominciata ad abituare a quello che la circondava.

Da quando non vedeva la luce del sole?
Non lo ricordava, lei non poteva ricordare niente. I ricordi non erano permessi, non a lei. Ogni volta che provava a farlo, a ricordare, la testa cominciava a far male e si costringeva a smettere.

A lei non piaceva sentire quel dolore, perché il dolore portava alle lacrime. Anche quelle non erano permesse, o almeno, non sempre. Quando era da sola a volte si lasciava andare a qualche lacrima, consapevole che nessuno la poteva guardare. Ma quando era con loro, con lui, ogni lacrima versata veniva condannata.

Forse scegliere di provare gli esperimenti su una bambina, dopotutto, era stato strategico. La mente dei bambini è ancora facilmente modellabile, nonostante lei fosse comunque una molto testarda.

Lei in effetti si sentiva così: raggirata. Come se quell'uomo le promettesse tante cose pur di aiutarla a cedere, a stare al suo gioco - come lo chiamava luiche però alla fine non la lasciava vincere mai. Lui prometteva di riportarla a casa, lo faceva ogni giorno, ma alla fine della giornata lei a casa non ci tornava mai.

Tornava sempre in una piccola cella, dalle pareti grige, e passava il tempo libero disegnando dei graffiti sul muro che prontamente venivano cancellati dall'uomo o dal suo assistente. Se da un lato la infastidiva, dall'altro lato le andava bene. Ogni volta che il muro ritornava pulito e senza graffiti, per lei era uno stimolo per realizzarne altri nuovi. Ogni giorno uno diverso, perché non ricordava mai cos'avesse realizzato il giorno prima.

Forse faceva sempre le stesse cose e non lo sapeva, nessuno glielo diceva mai. Le uniche parole che si sentiva dire erano degli ordini, a volte semplici e altre volte complicati, ma anche quelli li dimenticava facilmente.

Ecco, dimenticare gli ordini era un'altra di quelle cose severamente proibite. Se le veniva imposto di creare qualcosa, che si trattasse di un oggetto o di una semplice aura protettiva, lei doveva ricordare come si faceva. Se le veniva ordinato di attaccare, lei doveva ricordare gli esatti movimenti che doveva eseguire. E se per puro caso dimenticava, o si rifiutava, le conseguenze non erano belle.

Una cosa di cui non riusciva a dimenticarsi, però, c'era: i suoi genitori. Non aveva idea di dove fossero, non sentiva più la loro voce da un sacco di tempo, eppure i loro volti erano stampati nella sua mente. A volte si chiedeva perché l'avessero abbandonata così facilmente, ma altre volte aveva come l'impressione che in realtà loro erano solo stati costretti ad abbandonarla.

Come? Non lo sapeva. I suoi ricordi, con il passare del tempo, diventavano ogni secondo più sbiaditi e gli unici che riusciva ancora a tenere a galla erano proprio quelli dei suoi genitori. A volte, però, doveva sforzarsi a tenere vividi anche quelli. I suoi genitori erano la cosa più preziosa che viveva ancora dentro di , nonostante le continue modifiche che quell'uomo si preoccupava a fare.

GROWN • Steve RogersDove le storie prendono vita. Scoprilo ora