Un rimorso per tornare, un segreto per restare

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Era presto, talmente presto che faticava non poco a vedere dove metteva i piedi: le stelle in cielo erano poche e poco luminose e la luna sembrava aver cambiato residenza. Andrada era uscita prima dell'alba, avvolta in mantella, sciarpa, guanti e cappello non sapeva nemmeno lei bene se per proteggersi dal fresco marzolino o se per non farsi riconoscere. Ma riconoscere da chi, poi? A Palazzo dormivano ancora tutti quando si era alzata senza eccessiva fatica (ormai le sembrava di non ricordare neanche più i tempi in cui a mezzogiorno sua sorella doveva buttarla giù dal letto) ed era comunque una donna libera e indipendente; ricca, aristocratica, potente... sì, ma libera di andare a trovare in carcere l'uomo che l'aveva cresciuta e amata come una figlia e che era stato ingiustamente accusato di un crimine gravissimo da colui che ne aveva sposato proprio la nipote adorata. Come previsto, non appena giunse davanti l'ingresso di Palazzo della Signoria ebbe un brivido: era lì che Lorenzo aveva visto la morte in faccia, lì che aveva rischiato di consumarsi la peggior tragedia di quei mesi allucinanti. Era quasi buffo, a pensarci, che proprio in quel luogo Cosimo avesse fatto rinchiudere Rinaldo. Sapeva che le guardie poste a presidio del cancello non la avrebbero facilmente riconosciuta e così, prima che quelle potessero anche solo pensare di sbarrarle l'entrata con le loro lance, si abbassò il cappuccio, si tolse il cappello di lana e con la mano libera scostò lo sciarpone dal mento e dalla bocca. "Sono Andrada de' Medici, moglie di Cosimo e Signora di Firenze. Sono qui per vedere mio zio, Rinaldo de' Albizzi. Possiamo guadagnare tempo risparmiandoci tentativi di bloccarmi: so bene che il mio coniuge ha vietato qualsiasi tipo di interazione fra chiunque e il prigioniero ma io rivesto un ruolo d'autorità in questa città ed esigo che venga rispettato. Lasciatemi entrare senza opporvi e senza inutili esclamazioni sul mio stato di donna che gira da sola per le strade a quest'ora del mattino: non servirà a nulla." I due si scambiarono uno sguardo confuso: il loro turno era iniziato da un'ora circa ed avrebbero mentito a sé stessi se avessero detto di non essere ancora mezzo addormentati, in più la situazione che si stavano trovando loro malgrado a dover affrontare non era certo delle più agognate ma quella davanti a loro era davvero la donna più facoltosa di tutta la Signoria, su questo non avevano dubbi, ed aveva appena ordinato ad entrambi di comportarsi in un determinato modo. Dieci minuti più tardi Andrada indossava di nuovo tutti i suoi capi caldi, perché nelle prigioni la temperatura era bassissima, e camminava dietro un soldato grande e grosso dal cui fianco pendeva un enorme mazzo di chiavi tintinnante.


La guardia avrebbe voluto svegliare l'Albizzi a calci: era un uomo fedele ai Medici e tutto ciò che usciva dalla bocca di Cosimo era per lui sacrosanto, così come per la maggior parte dei combattenti fiorentini. Si rendeva ben conto però che non sarebbe stata una buona idea maltrattare il prigioniero davanti alla nipote anche se, tronfio del proprio ruolo e accecato dal proprio servilismo, si era convinto automaticamente che Andrada si trovasse lì non per portare conforto e appoggio allo zio ma per sputargli in faccia tutto il suo veleno: era una Medici lei, una donna fiera ed orgogliosa pronta a rinnegare il sangue per la fedeltà alla famiglia d'acquisizione e al marito e lui si sentiva stupidamente importante perché prescelto da Dio o dal destino per assistere a quel momento: lo avrebbe raccontato ai nipoti. La precedeva di un paio di passi e la giovane stava iniziando a chiedersi dove diavolo il consorte avesse relegato Rinaldo quando il soldato si fermò davanti ad un'immensa porta spessa e apparentemente infrangibile, cominciando ad armeggiare con le chiavi per trovare quella giusta. Ella si rese conto che avevano percorso davvero molta strada e che, dopo essere passati (tramite un corridoio stretto, buio e angusto) in mezzo a quelle che le erano sembrate centinaia e centinaia di celle dalle quali aveva ricevuto occhiate inquietanti e nelle quali aveva scorto occhi infiammati e anime perdute, avevano poi affrontato una discesa che non aveva probabilmente nulla da invidiare al percorso che da Gerusalemme portava agli Inferi attraverso le viscere della Terra. "Siamo arrivati, Madonna." La informò il soldato, poi cominciò ad aprire lucchetti e serrature. Andrada non poteva crederci: Cosimo non solo si era erroneamente ed insensibilmente convinto che Rinaldo fosse l'artefice di tutti i loro drammi e lo aveva per questo fatto arrestare nell'attesa di vederlo penzolare cadavere appeso ad una corda, ma si era anche assicurato che fosse rinchiuso nella cella più isolata e inospitale di Palazzo della Signoria, metri e metri sottoterra. Sentì lo schifo per suo marito tornarle prepotente in corpo e per un attimo il senso di colpa per ciò che aveva fatto con Federico si attenuò. Ingoiò la bile e quando finalmente la porta fu spalancata dovette ingoiare anche un conato di vomito: l'odore di feci, urina e chiuso era insopportabile e il buio totale. La guardia sembrava quasi imbarazzata. "Mia signora... ecco... mi addolora immensamente dovervi costringere a sostare in questi luoghi. Se posso fare qualsiasi cosa per voi..." cominciò a farfugliare, ma Andrada lo gelò con lo sguardo. "Prendi una fiaccola e illumina questo posto. E poi vattene e lasciami sola con mio zio." Sibilò. L'uomo non si aspettava un atteggiamento tanto scortese e tentennò. "Ma... mia signora... non potete chiedermi di andare via..." "Infatti non ve lo sto chiedendo, ve lo sto ordinando." Furono le ultime parole, secche e taglienti, che la Medici rivolse a quel leccapiedi prima di voltarsi e di avvicinarsi al prolungamento della roccia, duro e scomodo, dove i suoi occhi che stavano cercando lentamente di abituarsi all'oscurità, erano riusciti ad intravedere una figura raggomitolata e addormentata. Quando il fuoco illuminò la zona come da lei richiesto ebbe un tuffo al cuore nel riconoscere Rinaldo dimagrito, sconvolto, spettinato e sporco abbracciato a quel pezzo di muro. Non c'era altro nella cella, che era minuscola, solo umori. Represse ancora una volta la nausea e squadrò severamente la guardia che stava cercando di fare lo gnorri e di restare lì. Quando quello fu finalmente uscito fuori, non prima di averle assicurato che sarebbe restato dietro la porta per tutto il tempo necessario, lei appoggiò delicatamente le mani sulle spalle dell'uomo che per anni e anni, durante l'infanzia da orfana che il destino le aveva riservato, era stato il suo eroe personale: il fratello del padre tanto amato e perduto da bambina. "Zio... zio Rinaldo... coraggio, svegliati." Sussurrò commossa. Lui si destò lentamente, stravolto, confuso, sofferente. La riconobbe quasi subito. "Bambina... bambina mia... Andrada..." sussurrò, spaventato che la presenza della nipote in quel luogo maledetto potesse essere solo un'illusione della propria mente torturata. Lei si era abbassata all' altezza giusta e piano piano lo aiutò a girarsi verso il suo volto. "Oh zio... sono qui. Sono qui." Mormorò. E poi, lentamente, lo strinse a sé e lo lasciò piangere, donandogli quell'abbraccio che gli doveva ormai da troppo tempo.

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