Capitolo diciasette

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10 febbraio 1976
Tae incominciò il tour, le lettere finirono.
L'ultima dice:

Telegramma da Los Angels (LA) 3 gennaio 1976
"Mio caro Jungkookie l'indomani parto per iniziare il tour. Non ti nego l'emozione mischiata all'ansia che mi perseguita in questi giorni, l'unica cosa che mi tiene in sollievo e il pensiero di te, di noi. Appena avrò tempo ti risponderò. Non pensare che io ti dimentica." 

Quel telegramma lo stringevo fra le mie mani, quando nessuno mi vedeva in camerata, e rileggevo le sue parole: intanto i notiziari italiani parlavano di lui, del suo tour, del suo nuovo album scritto durante una vacanza durata mesi in Italia.
In un piccolo ritaglio del quotidiano, sotto alla sua foto in smoking come era suo solito, c'era una didascalia della sua intervista.
"Ho dedicato questo album a questo mio momento di riflessione sia su di me e sulla mia vita." Tra gli ultimi telegramma che mi inviò mi parlò della rottura con Adele, mi disse che trovò il coraggio di parlargli, di dirgli che non la amava come lei desiderava e che veramente meritava di essere amata. Mi raccontò dei suoi giorni tormentati quando Adele gli confessò che aveva sentito tutto, quella sera. L'unica cosa che lo rassicurava era che lei non usava questo pretesto contro di lui.
Pensai a come Adele si sentisse: aveva dovuto aspettare quasi la fine dell'estate per vederlo, per poi sentirsi dire che non era mai stata amata dall'uomo che lei considerava il suo amore: ovviamente Tae non era intenzionato ad accennare della sua omosessualità, della sua storia: fu lei a dirglielo e per un paio di giorni pensai che era stato questo evento a interrompere l'unico modo per noi di comunicare.
I giorni iniziarono ad aumentare, e di lui non vi era nessuna traccia, scomparii nel nulla. L'unica cosa che avevo di lui era il medaglione e quella Polaroid scattata nel giardino degli oleandri.
Ed io stavo di merda, veramente male. Lo pensavo in continuazione, volevo cercarlo, dovevo dare delle spiegazioni a questo suo atteggiamento che non faceva altro che alimentare i miei pensieri che diventavano ogni giorno più pesanti, sempre più rumorosi, affamati di essere risolti.
Misi in ballo ogni tipo di ipotetica ipotesi, alla fine del cerchio concludevo sempre che c'era qualcosa che non andava considerando me per primo, di aver sbagliato e di esserlo.
Tae era il mio appiglio. La mia motivazione nell'affrontare le situazioni, sentirlo vicino mi stimolava nel pensare che una volta finita la leva ci saremo rivisti, e nonostante le mille paranoie sempre più forte era il desiderio di lui, di averlo di nuovo fra le mie braccia, anche quando pensavo che lo incominciai ad odiarlo.
Arrivai a pensare addirittura di chiedere in concedo ma non potevo, per le feste ero ritornato nella mia città, fu anche l'ultima volta che lo sentì telefonicamente, per il concedo, in ogni caso, dovevano passare mesi ovviamente questa legge non valeva per le situazioni urgenti.
Io non lo chiesi, il concedo, mi fu dato.
Me la ricordo come se fosse ieri quel giorno. Al nord Italia pioveva, c'era una nebbia così fitta che non la vista non permetteva di guardare a pochi chilometri di distanza.
6 marzo 1976.
In costa c'era il sole, come sempre. Il novecento hotel tra le rocce della piccola montagna brillava nel suo colore bianco chiaro, i rivestimenti delle arcate in oro si notavano da lontano, proprio come piacevano alla mia mamma. Sotto vi erano delle vie incurvate con degli alberi di macchia, tipici del sud.
Fu in quelle vie, che portavano per il novecento hotel, che i miei genitori persero la vita.
A portameli via fu un incidente stradale; due macchine si erano scontrate. A quei tempi la macchina non era come adesso, se ne sentivano spesso di incidenti, perché le persone non ne facevano così tanta attenzione, non c'era la stessa prudenza di oggi.
Mia madre e mio padre se ne andarono, lasciandomi per la seconda volta orfano.
Sul colpo nessuno dei due si salvò, qualcuno disse probabilmente qualcuno dei soccorritori a chi aveva assisto alla scena trovandosi sul posto, che i miei genitori si strinsero la mano quando capirono la gravità della situazione; a questo gesto,seppur vero, ci penso spesso ed io, voglio crederci che sia successo, che si sono tenuti per mano anche nell'ultimo momento della loro vita, come hanno sempre fatto, per chi li conosceva sa del loro rispetto e amore che si donavano reciprocamente.
A dirmelo fu Achille, per telefono: chiamò la caserma di Trento, spiegò la situazione al tenente ed io fui convocato. Avevo capito che c'era qualcosa che non andava quando, il tenente mi passò la cornetta, e mi diede una leggera pacca sulla spalla.
Quando alzai il telefono, ancora il ricordo della voce spezzata di Achille, amico fedele dei miei genitori, mi disse:" Jungkook i tuoi genitori hanno fatto un incidente. Ho chiesto il congedo, domani parti." Il suo timbro di voce era freddo, sparò tutto di un fiato: sapevo che lo aveva fatto perché si era trattenuto dal piangere, la prima volta che lo vidi piangere fu proprio al loro funerale.
Quando sentì il bip della chiamata terminata, sentì una sensazione di vuoto. Mi sentivo di nuovo solo.
L'indomani, nel treno non feci altro che asciugarmi le lacrime, pensare a loro e a quanto avrebbe fatto strano non vederli, pensai a quando era strano rendersi conto che loro non c'erano più, dovevo abituarmi alla loro assenza, l'ennesima.

The Novecento Hotel| TaekookDove le storie prendono vita. Scoprilo ora