CAPITOLO V

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Mancavano ventiquattro giorni allo scadere quella tacita scommessa che Marek aveva deciso d'imporre, per quanto tentassi di non pensarci e fingere che la cosa non mi toccasse – c'era qualcos'altro che m'impediva la totale indifferenza sulla questione, le sue parole celavano solo l'ennesimo mistero. Dopo aver raccontato a Dorothée cos'era successo in mensa, lei aveva messo su un'espressione dubbiosa ed affranta, non ne conoscevo di preciso il motivo ma ormai per tutte le volte che mi aveva consigliato di star lontana sia a Marek che ad Uriel, avevo capito che non gli stavano molto simpatici. Eppure ogni qualvolta cercavo spiegazioni lei mi sorrideva carezzandomi la testa, il modo in cui lo faceva era così dolce e magnanimo che il cuore sembrava sciogliersi poggiandosi nelle sue mani. Di solito accostava la fronte contro la mia e cantava melodie per rassicurarmi o forse per trovare il modo giusto di sviare le troppe domande a cui la sottoponevo, mi rilassavano la sua voce ed i suoi mugugni – tanto che ogni altra informazione mi pareva superflua, sul momento e a pensarci a mente fredda mi sentivo vittima di qualche incantesimo.

Ma Dorothée quella sera non c'era in camera, doveva scontare una punizione di cui non aveva potuto dirmi nulla. Lo stesso pomeriggio come di suo solito si era spogliata restando completamente nuda ed aggirandosi per i corridoi del dormitorio toccando e dando vita ad ogni piantina appassita, finiva in poco tempo ad esibire la sua danza nei dormitori, seguita da una scia di piante e fiori perfettamente imitanti alla padrona; a volte mi piaceva paragonarla a madre natura, era così bella e delicata, così libera e priva di barriere che le sue stramberie passavano in secondo piano ogni volta. Spesso guardandola nei suoi momenti di solitudine, percepivo quanto fosse sofferente in quel posto – mi faceva male in quei momenti guardarla negli occhi lucidi e colmi di speranze non avverabili. Eppure, anche Dorothée come tutti in quel posto aveva mille e più un segreti.


Mancavano quindici minuti all'inizio del coprifuoco notturno, decisi che il tempo era abbastanza per poter fare una passeggiata schiarendomi le idee e magari per trovare una soluzione per scoprire le razze dei due vampiri decidendo così da me se fosse il caso o meno di starne alla larga. Tutto quel mistero mi asfissiava, mi rendeva stanca, fiacca e per quanto per me quella Wiccan fosse diventata fondamentale in così poco tempo – la mia testardaggine non era facile a morire.
Tolsi le scarpe per sentire la frescura del prato sotto le dita dei piedi, un gesto semplice che desideravo fare una vita ma che puntualmente mia madre m'aveva sempre impedito. I lontani ricordi di quando ero bambina mi riaffiorarono alla mente come spilli alla bocca dello stomaco, gli altri bambini potevano correre felici nei parchi a piedi nudi ma lei, la temibile e perfetta Lady Kizoku Cester impediva alla sua altrettanto impeccabile figlia di mischiarsi agli altri in modo così scialbo e sempliciotto.


All'ennesimo sospiro alzai lo sguardo verso la lontana foresta che avevo visto da vicino qualche settimana prima, il raccapriccio invase la spina dorsale ed aggrottai la fronte sentendomi bruciare gli occhi a tenerci troppo su lo sguardo. Lo distolsi quanto prima, avanzando il passo a testa bassa fino a schiantarmi con la fronte contro qualcosa.
«Accidenti!» Mi massaggiai il capo leggermente stordita, da quando ero lì avevo sbattuto contro Marek, contro la testiera del letto, lo stipite della porta, l'inserviente della mensa, il professor Alais, Richard ed ora... ora cosa avevo colpito? ...Per fortuna il sorriso mi tornò osservando una figura conosciuta. Uriel mi guardava dall'alto con un'espressione che mi pareva diversa da quella che aveva durante il giorno. «Ah scusami... sembro avere la brutta abitudine di sbattere contro cose o persone.» Il mio piccolo riso apparì nervoso, non sapevo perché. Chinai appena il capo per congedarmi e superarlo – l'orologio al polso segnava meno cinque minuti all'inizio del coprifuoco.


I movimenti che seguirono furono rapidi, Uriel fece un passo verso di me e la mandritta raggiunse il mio braccio, cercò di avvolgerlo tramite una mano senza permettermi di fuggire da lui e ci riuscì senza ulteriori sforzi. In quei giorni il professor Alais mi aveva spiegato, in separata sede, che la mia forza sovrumana era dormiente perché non addestrata. M'aveva in qualche modo messa in guardia dal fatto che rispetto a tutti gli altri avrei avuto non poche difficoltà a difendermi; in quei momenti me ne rendevo sempre più conto.
«Ti sembra il modo di farti perdonare, latticino?»
La sua voce era leggermente diversa, roca, bassa, più del solito e con un sottotono rude che non aveva durante il giorno. Mi strattonò con forza verso di sé.

L'ultima Kitsune - I misteri della Saint BaràDove le storie prendono vita. Scoprilo ora