Uriel

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Due settimane dopo il suo ottavo compleanno, la sua vita divenne una partita a scacchi in cui lui era pedone di entrambe le facciate; c'era quel bambino che desiderava solo crescere come chiunque altro e poi c'era lui, quella presenza che tendeva a definire Incubo. Perché viveva nei meandri della sua mente, era il vuoto che lo caratterizzava e completava al contempo. In quel periodo fece ingresso alla Saint Barà, fu accolto dal sorriso vuoto della signorina Packard, scortato da un uomo la cui forza era più che sufficiente per un bambino, eppure poteva scorgere di tanto in tanto la presenza di altri due uomini come lui alle sue spalle. Non ci furono parole dolci, né sorrisi di conforto, da parte sua non ci fu nemmeno la predisposizione per lasciarsi convincere che quel posto sarebbe stata una casa perfetta, una scuola che gli avrebbe fornito tutto l'aiuto possibile, sia negli studi che con la sua natura. C'era qualcosa però, nella stretta dell'uomo sul suo braccio, nelle occhiate continue che gli venivano rivolte, a far nascere in lui il dubbio che quel posto in realtà, era tutto fuorché una casa accogliente, né la sua scuola perfetta.
«Portatemi indietro.» Fu un mormorio che udì solo colui che lo scortava ma che ignorò, la Packard di fronte a loro parlottava con un'altra donna, ignara di quegli occhi grigi che poco a poco si fecero sempre più vuoti. «Voglio andare via.»

"Lasciati andare", era una voce distante ma lui non faticò a riconoscerla, non ne cercò nemmeno l'origine: sapeva che, per quanto si guardasse intorno, quella voce era unicamente nella sua testa. Non ne era spaventato, fu come se quella presenza che lo accompagnava giorno dopo giorno, in quel momento lo stesse abbracciando e cullando nell'ignoto, nel vuoto in cui essa viveva. Fu questione di pochi secondi, senza rendersene conto lui divenne semplicemente una marionetta nelle mani di quella oscurità che dal terreno cominciò a risalire lungo il suo corpo, si aggrappò ad ogni centimetro di carne coperta e non con ferocia, ferendo la mano dell'uomo che lo teneva ed all'istante indietreggiò, sorpreso.

«No signorino Vanomrigh, riprenda il controllo del suo corpo non vogliamo farle nient- chiamate subito il rettore, ditegli che è un'emergenza... ADESSO!»
Le voci diventarono qualcosa di lontano ed irraggiungibile, nel giro di pochi secondi, il corpo del bambino diventò solo un ricordo, esso mutò in una creatura di cui non si potevano contraddistinguere i lineamenti, completamente contornata da ombre, tenebre. Solo due occhi bianchi si aprirono e diedero un indizio di dove fosse il volto, occhi privi di confine tra pupilla ed iride che incontrarono quelli spaventosi dell'uomo al fianco. La paura, la rabbia, la solitudine, lui poteva avvertire qualsiasi sentimento oscuro sepolto nei cuori di tutti i presenti, li assorbiva, li trasmetteva a sua volta, diventando la fonte di angoscia e terrore per chiunque si trovasse a qualche metro da lui. Si guardò in giro, quelle ombre di cui era contornato, diventarono dei serpenti silenziosi che si avvicinarono all'uomo più vicino e, con un guizzo rapido, ne avvolsero il collo, lo strinsero in una morsa impossibile da afferrare, le mani della vittima attraversavano quella oscurità senza riuscire ad aggrapparsi ad essa.

«Lascialo andare, ora!» Il ticchettio dei tacchi risuonò per il corridoio, gli occhi della creatura incontrano quelli freddi e furi della Packard che alle sue spalle nascondeva un'altra persona. La osservò, la studiò in silenzio e, quando raggiunse i luoghi più oscuri del suo cuore, un sorriso si formò sul volto di Incubo, una linea sottile che si aprì in mezzo a quelle ombre mostrando dei denti aguzzi, dei denti che potevano strappare la carne di un uomo senza problemi. Senza dire una parola ancora, lasciò semplicemente cadere a terra la sua vittima pochi istanti prima della morte, essa strisciò verso la donna che non fece una piega di fronte a quella scena, disinteressata.
«Benvenuto alla Saint Barà, Incubus. Abbiamo molto di cui parlare.»
«Lo immagino.» Nessuno capì esattamente cosa accadde quel giorno, tutto ciò che quel bambino di otto anni sapeva era che doveva rimanere lì, le voci nella sua testa gli suggerivano fosse la scelta migliore per l'esistenza di entrambi, ne avevano bisogno per rafforzarsi.

Una donna sola, in un tempo in cui non si ha conoscenza, fu accarezzata dalle sue paure, abbracciata dalla sua rabbia, baciata dalla sua tristezza; quei mali che si tende a temere la avvolsero come il più dolce degli amanti, la fecero contorcere tra le lenzuola di un letto in cui mesi dopo, avrebbe dato alla luce il primo e solo di una razza unica nel suo genere. Era un Incubo, qualcosa che non poteva essere descritto ma da cui si doveva solo fuggire.
Fu questa la leggenda che la sera, prima di dormire, veniva raccontata ad un bambino dai capelli neri come la notte che per i primi sette anni di vita desiderava ciò che ogni bambino, come lui, voleva: divertirsi. Eppure, il suo divertimento era ricavato dalle lacrime dei propri compagni, dalla rabbia dei genitori adottivi, dall'esasperazione delle suore che puntualmente lo vedevano tornare indietro con una espressione innocente ed una scrollata di spalle, indifferente a quei via vai continui dall'orfanotrofio.
Non esistevano sogni popolati da pirati o creature fantastiche per lui, ma incubi che nascevano dai sentimenti più nascosti che di solito un bambino non riesce a raggiungere con la sua innocenza, con la sua purezza, ma di cui lui a sette anni era perfettamente consapevole. Andava a letto con la consapevolezza che quegli incubi lo avrebbero tormentato una volta preso sonno, con la precisa idea che nessuno sarebbe corso in suo aiuto nel caso in cui si fosse messo ad urlare, perché quegli incubi erano normali, a tutti capitava di averne, loro non potevano sapere.
Nel giro di qualche mese, fu come sprofondare lentamente in un baratro, trascinato dall'abbraccio delle tenebre che lo cullavano in una dolcezza unica, paragonabile a quella di un genitore che mai aveva avuto, lo consolavano e lo amavano come un figlio.
La sua prima trasformazione avvenne proprio in quel periodo, a qualche mese dai suoi otto anni; un giorno le emozioni negative furono tanto intense che, senza rendersene conto, divenne prigioniero della sua stessa mente; la gabbia in un corpo che non sembrava più il suo. Le ombre inghiottivano la sagoma senza genere, senza tratti, in cui solo due occhi bianchi ed affilati spiccavano come luce in mezzo a tenebre, rendendo quella creatura più inquietante e subdola di quanto già non fosse.
Smise di essere un bambino ancor prima di rendersene conto, condizionato da una creatura che lo educò in silenzio; crebbe con la consapevolezza di essere un Incubo, in bilico tra il controllo di sé stesso e l'oblio.

L'ultima Kitsune - I misteri della Saint BaràDove le storie prendono vita. Scoprilo ora