CAPITOLO X

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Dal giorno precedente ero diventata un vero e proprio zombie e dovevo ammettere che quella figura non stonava affatto nell'ambiente in cui, malauguratamente, mi trovavo. Non avevo nemmeno avuto l'occasione di accoccolarmi tra le braccia di Dorothée quella notte e sicuramente ciò aveva giovato al mio malumore. Indossai la divisa svogliatamente per la prima volta in tanti anni, vista da fuori quel giorno ero la solita secchiona con i capelli fluenti ed in ordine. Se c'era una cosa che avevo imparato in quel posto, era proprio il fatto che nessuno di quegli individui mi aveva compreso a pieno. Sospirai stancamente dopo essermi fissata allo specchio, passai un dito su quelle lentiggini come a volerle cancellare, ma ovviamente dopo il lieve rossore provocato dal contatto rude, tornarono esattamente come prima.
Al solito il dormitorio non era per niente rumoroso ed anche se poteva apparir piacevole, era comunque inquietante; consapevole del fatto che oltre quelle porte potevano esserci creature molto più potenti forse di Marek od Uriel, o di Dorothée ed anche di me, era momentaneamente impensabile.

«Guarda chi c'è, la piccola Eireen.» Una voce acida interruppe i miei pensieri, quella che avevo davanti era Dyanne. Padrona e fidanzata dello stesso Thomas che varie notti prima mi aveva aggredito scontrandosi con Marek. Storsi le labbra in un'espressione di puro disgusto e sospirai scocciata, decidendo di ignorarla e passare oltre. Il suo odore mi dava la nausea. «Ehi dove vai così di fretta? Volevo solo fare due chiacchiere con la più bella del reame.» Canzonò parandomisi davanti.
«Dyanne, vado abbastanza di fretta. Se vuoi parlarmi del tuo pseudo ragazzo, sappi che la cosa non mi interessa minimamente, piuttosto ti consiglio di tenerlo a bada.»
«No? Strano, visto che hai sedotto persino lui.»
«Cosa?» Sbottai guardandola con sgomento, mi veniva dietro con totale naturalezza, ma quell'affermazione mi fece fermare all'istante. «...Senti, non so cosa ti abbia raccontato quel vampirello da strapazzo, ma forse dovresti pensarci tu prima di lasciarlo a digiuno per giorni interi. Ho sentito che incontra molte più ragazze di notte e di certo io non sono interessata ad una feccia simile, non è poi così attraente da attirare la mia attenzione, sai?» Dosavo la mia istintività in tempi decisamente sbagliati, lei mi guardò ridendo mentre si copriva la bocca col dorso della mano, un gesto fintamente galante e che al momento non le si addiceva affatto. Sotto gli occhi il nero della matita era talmente calcato che quasi non gli si riusciva a distinguere il colore degli occhi, quando si calmò sollevò una mano in mia direzione come se stesse per schiaffeggiarmi, gliela bloccai quasi subito soppesandoci con evidente astio. Quando sollevò anche l'altra, a fermarla prima di me fu Dorothée.
Una strega ed una Wicca al confronto? Non sapevo se fuggire dall'isola o dal pianeta intero.
«Gira a largo Dyanne.» Fece la mia amica, la strega strattonò le mani liberandosi delle nostre strette e si sistemò la giacca della divisa modificata secondo i suoi macabri gusti.
«Non è affar tuo, fiorellino di campo. Ma visto che siamo in tema, dì a questa cosa di stare lontano dagli uomini di razze opposte. Non sarà colpa di nessuno se finirà sepolta nella Caed Dhu, è qualcosa che non le hai ancora spiegato?» Scrollò le spalle e mi guardò schifata, dopo aver lanciato la bomba che fece ammutolire sia me che Dorothée, tolse il disturbo proseguendo spedita verso il dormitorio maschile. Roteai gli occhi al cielo scuotendo appena la testa.

«È così fastidiosa.» Dorothée venne scossa da evidenti brividi, li enfatizzò con un verso di disgusto che sfociò nel riso di entrambe.
«Nell'ultimo punto non aveva completamente torto, mi dicono sempre di stargli alla larga...» Sospirai seccata, Dorothée mi lanciò uno sguardo compassionevole e mi carezzò la spalla, non vi fu bisogno di parlare oltre.
«Tu non c'entri niente, gli altri sono attirati da te a prescindere e questo già te l'ho spiegato.»
Già. Eppure io non facevo nulla per impedirlo, quasi me ne crogiolavo anzi. Sapevo ormai quanto Dorothée soffrisse nello starmi vicina ma non riuscivo a non pensare a quel piacere sublime dopo il dolore.

Ci separammo per un impegno misterioso di cui Dorothée non fece in tempo a parlarmi ed io proseguii verso il cortile approfittando del fatto che mancava ancora un po' all'inizio delle lezioni che lei avrebbe saltato con tanto di giustificazione approvata dai piani alti.
In classe, più tardi non c'era traccia di Uriel, ma Marek come al solito sonnecchiava al mio fianco perdendosi l'entusiasmante lezione sugli spettri delle montagne Caedhuiane, le raffigurazioni del nostro insegnante erano sempre fin troppo vivide; ci stava infatti mostrando questi esseri curvati su loro stessi e nascosti con maestria nei rovi della foresta, non avevano un nome – ritenuti troppo poco importanti per esso, ma il loro aspetto li rendeva inconfondibili, con la pelle spessa e piena di grinze che pareva vecchia corteccia potevano anche esser scambiati per tronchi amputati, eppure non appena si destavano dai loro lunghi assopimenti, divenivano bianchi pallidi con gli occhi affilati e denti sporgenti.
«Mi auguro che ritroverete l'attenzione una volta tornati dalle vacanze natalizie.» Brontolò il professor Alais a pochi minuti dal suono della campanella.

Ancora non riuscivo a credere che anche creature simili festeggiassero qualcosa come il natale. I giorni in questione erano solamente due, dove si aveva la possibilità di lasciare quel posto sconosciuto a tutti e raggiungere le proprie famiglie rivedendole solo quella volta all'anno. Già, le proprie famiglie. Io ne avevo ancora una, a proposito? L'ultima volta che avevo visto i miei era stato quel fatidico giorno di prelevazione e a differenza degli altri io non avevo mai ricevuto una sola singola lettera da parte loro; inutile rimuginare quindi su dove avrei passato quel natale, al di fuori di quel posto che nemmeno esisteva nel vero mondo, io non avevo più casa o famiglia. Ero sospesa nel nulla più pericoloso.
Marek fu svegliato dalla campanella, passò giusto qualche secondo a scrutarmi e poi si alzò stiracchiandosi dopo la sua bella dormita.
«Oggi parto, volpe mi sa che non ci vedremo per qualche giorno... sì, so che ti mancherò ma il dovere chiama.»
«E quale dovere, sentiamo?»
«Beh ovvio, quello di onorare tutta la famiglia con il mio smisurato charme.» Disse quelle parole con mezzo sorriso sulle labbra e a voce bassa dopo essersi chinato verso di me. Mi salutò con una pacca sul capo ed andò via.
Pensandoci, Marek era cambiato molto dal primo giorno in cui l'avevo incontrato ancor prima di Uriel. Mi era sembrato scontroso e freddo ma ahimè rispetto al compagno non era proprio nulla – scacciai via quei pensieri rifiutandomi categoricamente di portarli allo stesso punto ancora una volta.

Entrando in camera dopo un lungo giorno passato a cercar di capire dove fosse finita la mia voglia di fare e di dire, trovai Dorothée accovacciata contro le lenzuola di un letto ancora sfatto. Alle volte mi fermavo a guardarla di nascosto per poterne capire meglio i meccanismi affascinanti e seducenti che solo lei poteva sfoggiare con tanta naturalezza.
Dorothée mi aveva raccontato del suo passato, nata dall'unione d'una donna e d'un uomo non era niente. Ma Desdemona, figlia dell'Ombra e della Luce, figlia della Terra e del Cielo, figlia della Grande Dea e del Dio Cornuto, lei era qualcosa.
Leggiadra e delicata, avvertiva lo scorrere della vita nelle radici che d'energia pervadevano il Creato. Danzava, piroettava spensierata anche se aveva tutto il mondo sulle spalle, onorando la sua Dea ed il suo Dio. Inalava l'odore dell'incenso che adesso invadeva anche camera nostra, e delle candele. Sorrideva, rideva, gioiva.
Si prendeva cura di me senza chieder nulla in cambio.
Lei mi disse che sua madre le somigliava molto: libera da ogni pregiudizio, da ogni vincolo. Libera di volteggiare, d'unirsi alla natura. Libera d'essere. Già... avevo rimuginato su quell'espressione per giorni.
Sua madre carezzava sempre i capelli di Dorothée cullandola in caldi abbracci e questa cosa mi disse che la confortava molto, le mancavano gli abbracci di sua madre. Suo padre invece, aveva mollato tutte e due per una lolita o qualcosa di simile. Il fascino perverso della combinazione vecchio-nuovo come l'agrodolce nel palato, diceva, cattura l'attenzione degli ormai adulti appesantiti dalle troppe candeline ed attratti da adolescenti prese da fascinazioni stagionali.
Suo padre le chiamava pazze, povere pazze figlie dei fiori. Guardava sua moglie e gli ripeteva d'averlo stregato, poi si dedicava ad attività più ludiche, passionali, quali calar giù slip umidi e sporcarsi di rossetto rosso volgare.
Poi... dimenticandosi quasi quell'ira che gli provocavano i ricordi del padre, tornava a sorridere raccontandomi di come lei e sua madre chiudevano gli occhi e si rifugiavano nella natura, continuando a danzare a piedi nudi abbracciate dalla brezza profumata dei pini della Francia. Se sulle prime l'immagine mi fece sorridere, dopo pensai che fosse una cosa assurdamente dolorosa per lei esser rinchiusa in un posto simile invece.
Il padre di Dorothée si stufò del loro spirito libero e della loro gentilezza, lo reputò un atteggiamento pazzo ed incriminabile, come se ormai solo il male fosse normale nella società in cui vivevamo.
Urlò prima di chiamare uno psichiatra con l'intenzione di farle rinchiudere. Divorziare per lui sarebbe stato troppo costoso, alimenti, soldi da versare mensilmente e reputazione di uomo saggio che rischiava di macchiarsi.
Mi chiesi come poté la madre della mia Dorothée unirsi in un sacro vincolo con un uomo di quel tipo.
Il racconto di Dorothée non proseguì mai oltre quel punto, decisi di non chiederle di più – mi andava bene anche così.

«Resti sempre a fissarmi, penso che alle volte tu mi voglia consumare l'anima.» La sua voce flebile uscì dalle coperte, ma lei restò immobile, rannicchiata nella sua magrezza ed i capelli sparsi un po' ovunque sul candore delle lenzuola.
«Spero che tu non possa consumarti mai.» Dissi con un sorriso, poi mi avvicinai affiancandomi sul letto insieme a lei.
«Oh Eireen... penso di starmi consumando più di quanto non mi stia rendendo conto.»
Spesso, pensavo sostenesse segreti troppo grandi per una sola singola figura come la sua.
«Lo impedirò, puoi starne certa. Mi caverò gli occhi per non rischiare di consumarti, se necessario.» La strinsi attirandola a me, era così piccola e fragile. Si voltò nascondendo il viso contro il mio modesto seno, io le carezzai i capelli abbracciandola – imitando le gesta di sua madre per come potevo e riuscivo ad immaginare.
«Alle volte penso che tu abbia stregato anche me.» Biascicò.
«Alle volte spero di averlo fatto sul serio.» Dissi.

L'ultima Kitsune - I misteri della Saint BaràDove le storie prendono vita. Scoprilo ora