CAPITOLO XI

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   «Non puoi tenermi il muso per sempre...»
Fissai Dorothée in cagnesco rinunciando subito ad allacciare quel maledetto vestito.
«Accidenti Dorothée sai benissimo che non ci parliamo da quel giorno, come hai potuto dimenticare di dirmi che passavamo le vacanze proprio in casa sua!»
«Beh ecco...» Abbassò le spalle mentre esalò un respiro di sconfitta, attraverso lo specchio la vidi venire dietro di me e con lo sguardo basso cominciò ad intrecciarmi il nastro del corpetto dietro la schiena. «...sapevo che se te l'avessi detto non saresti venuta. Sono la prima che non vi vuole vedere troppo vicini, ma preferivo rischiare anziché saperti tutta sola laggiù! Fidati se ti dico che non rimane anima viva alla Saint Barà negli unici due giorni di fuga... non mi sento sicura a lasciarti lì.»
Mi sentivo soffocare in quel corpetto e sinceramente ero anche un po' a disagio, ma lo sguardo dispiaciuto della mia amica mi fece quasi sentire in colpa dimenticando tutto quel supplizio.
«Che schiocca...» Le sorrisi attraverso lo specchio per rassicurarla. «ma dimmi, come fa tua madre ad essere ospite d'onore qui?»
«Oh dio Eireen, sei bellissima!» Le brillavano letteralmente gli occhi osservandomi, io mi sentii a disagio ancor prima di ispezionarmi allo specchio. La madre di Dorothée aveva preparato i nostri vestiti ancor prima che arrivassimo, quello della figlia era di un celeste polvere ed il mio invece di un bianco scintillante. Il corpetto non era volgare ma metteva in mostra quanto bastava il decolté e le clavicole ossute. I capelli me li aveva raccolti Dorothée in uno chignon basso che lasciava ricadere qualche boccolo morbido qui e lì rendendolo piacevolmente disordinato e mi aveva anche messo un rossetto rosso ciliegia facendo sembrare le mie labbra più carnose.
«Non lo so... non è troppo stretto? E se non riuscissi a camminare?» Non la smettevo di tirarmi la stoffa da una parte all'altra.
«Ma che dici! È un modello a corpo ma il tessuto è morbido, vedrai la comodità. Hai un corpo da urlo.» Ammiccò dandomi un bacio sulla guancia. «...Comunque, visto che so che me lo chiederai all'infinito, mia madre era una cara amica della mamma di Uriel. Purtroppo... lei non c'è più, mia madre a causa sua diventò la wicca della famiglia Vanhomrigh, voleva andar via dopo la sua morte ma ha preferito restare a causa di Uriel, immagino.»
Quindi Uriel non aveva più la madre. Quella notizia provocò in me uno strano moto di malinconia.
«Le famiglia di vampiri hanno delle wicca personali?»
Dorothée rise, poi recuperò qualcosa dal portagioie e si riavvicinò.
«No, ma capita che famiglie come questa, abbino una wicca o strega di fiducia che sappia consigliarli e guidarli.» Mi allacciò al collo un fil d'oro bianco con al centro un piccolo brillantino verde. Era così sottile che a stento si vedeva, eppure lo trovai meraviglioso.
«È stupenda... non posso accettare io...»
«Ti appartiene, mia madre dice che era della tua donatrice. Appartiene alla kitsune, ho solo fatto da tramite.» Le sue mani si posarono con delicatezza sulle mie spalle, mentre io osservavo affascinata quello splendore che avevo al collo.
«Mnh... in cosa bisogna guidarli? Le wicca hanno qualch—»
Interrotta ancora una volta, dalla madre amorevole di Dorothée. Incredula di quanto fossimo belle, restò per circa cinque o sei minuti a complimentarsi e poi a metterci fretta per scendere nella sala dei ricevimenti. Sebbene la conoscessi solo da qualche ora, avevo già capito quanto fosse impossibile dir di no ad un tipo come lei e per questo non perdemmo ulteriore tempo, arrivando finalmente a quel tanto atteso banchetto.

La musica era bassa e piacevole nell'enorme sala allestita minuziosamente per quella sera natalizia. Le decorazioni rosse ed oro sbucavano qui e lì senza essere mai troppo pacchiane ma anzi oserei dire persino piacevoli. C'erano così tante persone ed ognuna di loro probabilmente non era umana o forse sì? Rinunciai a scoprirlo sin da subito ritrovandomi da sola perché Dorothée salutasse amici e parenti insieme alla madre; non intendevo in alcun modo disturbare quei momenti dedicati alla persona che più amava al mondo.
«Ti sei persino fatta vestire da loro?»
La voce inconfondibile di uno stronzo del genere era impossibile non riconoscerla.
«Come scusa?» Voltandomi scorsi la sua figura slanciata fasciata in un elegante blu notte, che mio malgrado ne esaltava l'incredibile bellezza. In tutta quella pozza color pece dai capelli ad animo, spiccavano quegli occhi di ghiaccio pronti a trafiggere qualsiasi cosa incontrasse lungo il cammino.
«Non sono la tua famiglia latticino, eppure sei qui dove non c'entri niente, vuoi essere adottata o cosa?»
«Lasciami in pace Uriel.»
«Vorrei, ma mi compari sempre davanti.» Sospirò esasperato portandosi alle labbra un calice di champagne color ambra. Bevve in silenzio, senza togliermi gli occhi di dosso un solo istante e mantenendo una calma irriverente.
«Non ci credo... Eireen?» La voce non nuova mi impedì di schiantare uno schiaffo in pieno viso a quell'Uriel insolente, ma ahimé avrei preferito di gran lunga non sapere di chi si trattasse alle mie spalle. «La mia futura sposa nella dimora dei Vanhomrigh? I tuoi avevano detto che eri all'estero per una missione umanitaria.»
Albert. Albert Rochebord, figlio del segretario di mio padre era proprio lì di fronte a me vestito di tutto punto e con un sorrisetto disgustoso mentre mi scrutava con insistenza. Mi tornò subito alla mente il pomeriggio assurdo che organizzò mia madre per combinare il fidanzamento, ma a dire il vero la missione umanitaria in cui avrei dovuto essere, mi suscitò ancora più perplessità e poi, se lui era lì valeva a dire ch'eravamo vicino Grisly Shore?
«Certo, la nostra Eireen si è concessa solo una piccola pausa dai cuccioli di foca in pericolo.» Uriel trattenne a stento la sua ilarità.
«Capisco, tua madre deve avermi voluto far una sorpresa...» Disse pensieroso. «Ma come vi conoscete voi due?»
«Non lo sai? Anche io viaggio per le missioni umanitarie, il mio sogno è salvare il mondo dai tiranni.» Sollevò appena il calice verso Albert e poi sorseggiò il suo drink con totale nonchalance.
Cominciai ad andare in panico, quello poteva significare solo che i miei genitori erano lì a pochi metri da me. Albert cominciò a parlare a manetta, ma io non ascoltai nemmeno una singola parola più concentrata a far viaggiare le mie iridi in ogni angolo della stanza al fine di scorgere i miei.
«Vieni, mia madre ti vorrà salutare.» Il viscido mi prese il polso per trascinarmi via, ma io impiantai i piedi a terra con decisione. «Eireen?... Ho detto vieni con me.»
Il tono autorevole non faceva paura a nessuno, semmai m'innervosiva eppure non riuscivo a liberarmi di lui – almeno fino a che Uriel non strinse il suo di polso, probabilmente in una stretta sovrumana visto che Albert lasciò subito la presa massaggiandosi la mano dolorante ed arrossata.
«Che diavolo ti è preso!» Ringhiò.
«Non si tocca ciò che non è tuo, mammina non te l'ha insegnato, Rochebord?»
Lo fece andare via indispettito e bofonchiante, ringraziai Uriel con lo sguardo ma lui di tutta risposta sviò andando a prendere un altro calice di champagne, chissà se s'impegnava ad essere così antipatico o gli veniva su naturale.
La sala sembrava ancor più popolata di qualche minuto prima e le grandi porte finestre davano ad un giardino piacevolmente innevato ed illuminato da fili di luci tenui e continue. Si respirava un'aria serena se non fosse per il fatto che mi sentivo già gli occhi della maggior parte di quelle persone, perforarmi la pelle. Qualcuno al mio passaggio smetteva di parlare o ballare, o allargava le narici per inalare meglio l'odore della kitsune; era facile in quel modo capire chi era umano e chi no.
Un sospiro, l'ennesimo mentre cercavo il modo di darmela a gambe senza che qualcuno mi fermasse o vedesse – ne ero sempre più certa; quelle questioni non facevano per me.
«Un minuto prego, un minuto della vostra attenzione miei signori.» Un uomo salì sul piedistallo dedicato alla piccola orchestra dunque la musica cessò all'istante, s'impossessò del microfono ed attese che il vociare svanisse del tutto per continuare. «Sono onorato di avervi qui con noi in questa serata di festa.» L'applauso partì meccanicamente ma l'uomo affascinante e composto, dai capelli brizzolati, con un gesto di mano lo fece placare all'istante. Mi portava una certa inquietudine l'aria di devozione che si respirò improvvisamente. «...Stanotte ad onorarci della sua presenza, c'è mio nipote Uriel, di cui vado enormemente fiero e che voglio presentare ufficialmente a tutti voi. Ci siamo ritrovati da poco ed il mio cuore è scoppiato di gioia – non abbiamo mai avuto modo di presentarvelo in pubblico in questi anni a causa dei suoi innumerevoli impegni.»
Il presunto zio richiamò Uriel sul palco, che si fece attendere qualche secondo destando sull'immediato un passeggero sconcerto – colmato poi dagli sguardi compiaciuti non appena lo avessero visto.
Il discorso all'apparenza commovente, non mi scaturì nessun'emozione, era palese che dalle sue parole non vacillava nemmeno il minimo affetto.
Uriel salutò con un cenno di capo senza spiccicare parola. Io ormai, che avendo imparato un po' a conoscerlo avevo capito dal primo istante che fremeva dalla voglia di scendere di lì ed andarsene chissà dove: in questo forse eravamo più simili di ciò che credessi.
«...Ma come vi avevo anticipato, non è di certo l'unico che voglio presentare questa sera. Come promesso, miei cari, il banchetto di quest'anno sarà unico nel suo genere.» Allargò le braccia con fare teatrale, notai Uriel irrigidirsi al suo fianco. «È sempre un piacere e dovere per noi ricordare la nostra saggia Zenko, ma questa volta portarle onore sarà ancora più speciale. Abbiamo con noi la ricevitrice della grande Zenko. Eireen, Eireen Cester.»
Si sollevarono sospiri increduli e confusione, cominciarono a guardarsi tutti attorno nel tentativo di scovar per primi la fantomatica Eireen Cester. E poi perché?
Presa da un momentaneo panico, non mi mossi – poi incontrai lo sguardo di Dorothée preoccupato e decisi a salirci su quel palco. Vidi tutti dall'alto, Uriel si spostò per farmi spazio e non fiatò.
Il mio udito raggiunse anche i più flebili borbottii; "è la ricevitrice della grande Zenko, te lo dicevo", "oh mio dio, è identica a sua nonna", "è bellissima, è favolosa", "un odore sublime, se solo avessi quella carne"... mi fermai prima che potessi pentirmene, mi concentrai per non sentir più nulla ma piuttosto concentrandomi sulla vera questione: perché diavolo ero lì e chi era la grande Zenko a cui tutti erano devoti? E soprattutto... anche gli umani lì dentro erano a conoscenza di cosa in realtà fossi?
«È incantevole, signorina.» Lo zio di Uriel, o per meglio dire il signor Yithrov si inchinò appena e mi baciò la mano, mi espose poi a tutti – sembrò quasi voler che ognuno di loro mi guardasse con attenzione per scovare anche il mio più piccolo particolare, mi teneva la mano contro la schiena per farmi avanzare. Poi li vidi, mia madre e mio padre in un angolo della sala; bianchi in viso, tremante di rabbia mia madre e, evidentemente costernato suo marito. Qualcuno si congratulò con loro ed io mi sentii sprofondare.
Perché erano lì? Da che ne avessi memoria, non ero mai stata ad un ricevimento natalizio in quella casa. Erano stati invitati apposta? Osservai l'uomo al mio fianco, maleficamente compiaciuto in un sorrisetto debole.
Non avevo alcun dubbio, la grande Zenko che tutti osannavano era semplicemente la mia donatrice; colei da cui avevo ereditato il sangue di demone della kitsune. Mia nonna.
Eppure, perché tutti si preoccupavano di commemorarla? Perché ne parlavano come un dio?
Qualcuno mi applaudì con entusiasmo, altri si limitarono a far scena, evidentemente contrariati e ricchi d'astio.
Uriel mi portò via dal palco e le danze continuarono più chiassose di prima. Persi di vista i miei genitori che probabilmente erano andati via.
«Portami via di qui, per favore...» Mormorai sottovoce, così tanto che fui certa sarebbe riuscito a sentirmi solo lui. Mi tenne per mano finché non raggiungemmo il giardino sul retro, dove la musica risuonava ormai ovattata e lontana. Presi un profondo respiro mentre avevo i suoi dannati occhi ad inchiodarmi.
«Che c'è? Adesso puoi anche andare.»
«Ti sembro il tuo damerino? Non eseguo mica ordini da te.»
«Continui a fissarmi in quel modo... è fastidioso, se vuoi dir qualcosa dilla e basta.»
«Non assomigli per niente a tua madre.»
Mi irrigidii, scostai una ciocca ribelle che non faceva altro che ricadermi sul viso e tentai di rimaner il più possibile composta.
«Lo so.» Sospirai come arresa. «Per questo ho sempre pensato di essere stata adottata... avevi mai visto i miei qui? Siamo vicini a Grisly Shore?»
Uriel parve per un attimo sovrappensiero, fece mezzo giro attorno a me e si sedette sul muretto di fronte, fissandomi ora al pari della mia altezza e da più vicino.
«No, mai visti prima... ma è pur vero che non sono una fonte attendibile, non ho passato molti giorni qui. Questo è il primo anno e... sì siamo ad una cittadina di distanza.»
«Devi esser venuto qui quando tua madre... insomma, quando è passata a miglior vita.»
Uriel rise. O meglio, soffocò un riso sul nascere coprendosi la bocca con la mano enorme e venosa che si ritrovava. Mi si seccò la saliva per qualche istante.
«Non ho mai conosciuto mia madre, latticino. Semplicemente lui si è fatto vivo dopo aver saputo cosa ero in grado di fare. Ora sono il suo prezioso nipotino. Dovrò stare sotto la sua tutela un altro anno.»
«Scusami io non credevo...»
«Che fossi un orfanello problematico?» Sollevò un sopracciglio e si sporse verso di me sfiorandomi i tratti del viso coi suoi. «Beh, pare che quel ruolo quest'anno vada a te, latticino.»
Mi accigliai e feci per indietreggiare, lui me lo impedì avvolgendo il braccio attorno alla mia vita; la faceva sembrare più piccola di quel che fosse. Esalai un respiro che si infranse contro le labbra di Uriel, piegate in un sorrisetto mellifluo.
«Lasciami.» Biascicai.
«Nessuno lascerebbe sfuggire una kitsune in un momento simile.» Le sue labbra scivolarono più giù, sentii subito dopo il respiro freddo di Uriel sul mio collo scoperto, ebbi la pelle d'oca e m'aggrappai alle sue spalle quasi con disperazione. «Allora cosa si fa quando si ha in pugno una kitsune?» gli stropicciai il tessuto della giacca con le dita, le nostre facce si soppesarono nuovamente e mi scostò lui stavolta quella ciocca ribelle dalla guancia.
«Una tale seducente catastrofe andrebbe mangiata quando se ne ha l'opportunità.» La pressione della mano sulla mia schiena aumentò facendomi aderire del tutto al suo corpo.
«Ne hai avute molte.» Il mio sospiro carezzò le sue labbra.
Gli occhi di Uriel divennero dapprima ruggine ed infine rosso fuoco, le dita scivolarono dalla mia guancia, al collo. Lo strinsero in una morsa che sì mi permetteva di respirare eppure m'impediva ogni movimento facendomi sollevare appena il capo. Eppure, non smisi di guardarlo un solo istante.
«E le ho sprecate tutte.» Sorrise a mezza luna, gli si formò una fossetta sulla guancia destra ed ora sì che strinse la morsa al collo facendomi aggrappare stavolta al suo polso. «Non sono un codardo, odio avere vittorie semplici.»
«U-Uriel lasci....ami, non resp--»
«Non ti ho uccisa solo perché ora non sei nulla, tutti possono farti del male adesso. Persino quel Rochebord insignificante.» Mi lasciò, anzi, mi spinse via. Ancora una volta mi allontanò da lui. «Proprio non lo capisci. È per questo che devi starci lontano se vuoi accettare un mero consiglio, ti stiamo solo allevando per poi divorarti.»
Io tentai di riprendere fiato, lui mi sorpassò – avvertii la sua rigidità in quel momento. Eppure i suoi occhi nel dir quelle cose mi parevano sempre sinceri.
Stavolta risi io, ma non mi coprii la bocca per nasconderlo. Mi parai davanti a lui che per un misero secondo parve sorpreso.
«Oh Uriel, sei così...» Finsi di non trovar le parole, passai l'indice contro il suo labbro inferiore – inchiodandolo chissà come in espressione e movenze. «Ingenuo.» Il tono sornione lo colpì e si vide. «Sarò più che pronta, aspetterò con ansia il giorno in cui vorrai divorarmi e sai perché?» Mi sollevai sulle punte, stavolta fui io a sfiorargli le labbra per poi sviare all'orecchio. «Perché godrò così tanto nello squarciare le tue tenebre Uriel, ansimerò con piacere a sentir le tue urla dilanianti.» Le unghie affondarono nella sua nuca – lui non osò muoversi. «Sei così ingenuo perché vedi solo ciò che vuoi. Sei così ingenuo, a credere di potermi sfuggire... di poter vincere.»
Andai via, consapevole che lo spirito di quella bestia che avevo all'interno avesse chiaramente preso il sopravvento proprio in quella situazione. I miei passi sicuri, non lasciarono trapelare nemmeno un secondo lo sconcerto e l'agitazione che invece dentro di me si dimenavano.

«Non capisco, perché era così importante che mi presentasse a tutti?» Finalmente riuscii a liberarmi di quel vestito, quella festa durò la bellezza di quattro ore ed io e Dorothée una volta in camera tirammo un sospiro di sollievo liberandoci subito di quegli impicci. Non avevo più visto Uriel né i miei genitori per il resto della serata e la cosa onestamente non mi dispiacque per niente.
«Proprio non so dirtelo cara Eireen, lo zio di Uriel è qualcuno di cui diffidare. Onestamente, sto pentendomi di averti messa in questo pasticcio.»
«Cosa potevi saperne?» Indossai una felpa larga e crollai sul letto esasperata. «È solo che sono stufa di avere tutte queste domande per la testa. C'erano anche i miei... insomma loro conoscono i Vanhomrigh?»
«Beh certo che li conoscono, non siamo molto lontani da casa tua. L'alta società dei territori vicini va tenuta stretta, non lo sapevi?» Si sedette al mio fianco, pensierosa. «La grande Zenko è qualcuno a cui tutti sono devoti. È stata una leggenda la tua donatrice sai?» Mi slegò i capelli con lentezza, stando ben accorta a non tirarmeli. «è stata il punto di riferimento di molti e ormai sai quanto le Kitsune siano rare anche per questo mondo. Probabilmente il signor Vanhomrigh voleva solo mettere in mostra se stesso. Mostrare la sua vicinanza con la discendente... mia madre è ancora qui solo per tenere sotto controllo la situazione.»
Non mi parve molto convinta di quella teoria, eppure capii era inutile farle domande su qualcosa che probabilmente neppure lei riusciva a capire. Mi massaggiai la testa, sentendomi subito più rilassata.
«Vado a prendere del latte, ne vuoi?»
«No, ho bevuto troppo champagne mi sa, voglio solo riposare... non andare in giro per questo posto così...»
Dorothée sbadigliò non finendo la frase, le rimboccai le coperte e quando fui certa dormisse uscii silenziosamente dalla stanza.
Era enorme, un castello vecchio ma tenuto benissimo con millemila foto di tizi inquietanti e seriosi appesi ai muri di ogni angolo. A piedi nudi i miei passi erano silenziosi e leggiadri, muovendomi con attenzione nella penombra della notte ero quasi giunta in cucina quando una luce fioca alla fine del corridoio del piano terra, attirò la mia attenzione, anche se fu proprio la voce familiare che sentii anche a distanza, a richiamarmi.
«Perché diavolo l'hai fatto, sai quanto sia in pericolo adesso.» Uriel era chino, con i palmi piantati su una vecchia scrivania che cigolava sotto la sua ira.
«L'ho fatto per te, caro nipote. Non hai bisogno di stupida concorrenza, lei non è come la grande Zenko sarà facile sbaraglia—»
Il pugno che Uriel diede al mobile zittì lo zio, lasciando che il legno dapprima cigolante, finisse ora a metà. Sobbalzai e per poco non mi feci scoprire dietro lo stipite della porta.
«Non mentirmi, non sono l'idiota che credi.»
Il signor Yithrov si alzò di scatto ed io mi ritrassi lasciando rotolare giù dalla colonna il vaso di ceramica che avevo alle spalle.
Cazzo! Qualche coccio mi trafisse la pianta del piede ma questo non mi fermò dal correre spedita al piano di sopra.
Ingenua, lasciai quella stupida scia di sangue a tracciare il mio cammino.

L'ultima Kitsune - I misteri della Saint BaràDove le storie prendono vita. Scoprilo ora