17. Casa

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La ketamina era divertente.

La prima volta che l’aveva presa si era messo a ridere perché aveva trovato curioso il fatto di avere i denti, mentre qualche volta dopo aveva sghignazzato a causa della parola “polpaccio” in italiano. Era una parola che indicava una parte del corpo, eppure dal suono sembrava descrivere un polpo cattivo.

Nuru trovava la cosa molto buffa, almeno quando era fatto.

Quando era fatto la morte di sua madre spariva, e anche il suo lavoro di merda, e anche l’incidente di Raffaele.

Quando era fatto esisteva solo lui che galleggiava verso il soffitto, pensava ai denti e al polpaccio, e si sentiva felice.

Aveva guadagnato meno quel mese, perché parte della roba non l’aveva venduta ma assunta, però aveva raggranellato più di qualche soldo comunque.

Al contrario di molti uomini di Muzzamil, per lui che faceva i calcoli a mente e molto in fretta era più difficile farsi fregare, e avere un’intelligenza matematica era d’aiuto nell’ambiente.

Quel giorno di fine settembre lui era fatto, anche se l’effetto aveva iniziato a svanire. Durava sempre troppo poco, un’oretta al massimo, e poi la sua vita tornava a essere la solita merda.

Era per questo che quel giorno di fine settembre aveva preso due pasticche anziché una.

Quel giorno di fine settembre aveva deciso di fare una cosa, e gli era servito un po’ di coraggio.

Quel giorno di fine settembre, se non si fossero lasciati tre mesi prima, lui e Raffaele avrebbero festeggiato il loro secondo anniversario.

Due anni prima, quel giorno, lui aveva baciato il ragazzo nel bagno della scuola, poi era andato a Nyali ed Enrico gli aveva fatto il suo discorso.

Da quel momento non si erano più lasciati sino a giugno di due anni dopo, quando era crollato tutto, il giorno del pride, il giorno in cui Lela gli aveva scritto che sua madre sarebbe morta.

Erano passati solo tre mesi ma gli sembrava lontanissimo, un’altra vita.

Non era più tornato a Nyali a chiedere notizie di Raffaele. Aveva avuto paura di sentire che non era cambiato niente, che lui era ancora in coma, o peggio.

Quel “peggio” aleggiò tra i suoi pensieri, velenoso e acido, mentre la sua mente si schiariva dai fumi della roba che aveva ingerito.

Sapeva che, se Raffaele fosse davvero... se non ce l’avesse fatta, lui si sarebbe dato la colpa. Sapeva che se non si fosse trasferito le cose sarebbero andate in modo diverso, lui non sarebbe mai salito su quella moto, e sarebbe stato bene.

Però quello non era un giorno come gli altri, era il giorno del loro anniversario, e non conoscere le sue condizioni di salute lo tormentava.

Era passato un mese circa da quando era stato a Nyali, poco di più, e aveva tutta l'intenzione di tornarci, in quel momento.

Camminò sino alla fine del quartiere, i matatu non arrivavano sin là, e poi si piazzò davanti alla sua vecchia scuola aspettando che ne passasse uno diretto proprio in quella direzione.

Non dovette aspettare molto.

Sentiva ancora gli arti intorpiditi dalla doppia dose che si era fatto quella mattina, ma di testa era lucido. Era lucido e aveva paura.

Paura di suonare, paura di scoprire quello che era successo, paura di avere conferma che Raffaele aveva fatto la fine di sua madre ed era tutta colpa sua.

Non si attaccò al campanello quella volta. Suonò con un sobrio squillo, cercò di darsi un contegno, e attese.

Non passò molto tempo prima che il cancello scattasse, e ancora meno prima che la porta d’ingresso si spalancasse in tutta fretta.

Furaha // alla ricerca della felicitàDove le storie prendono vita. Scoprilo ora