Ci era voluto un po' per convincere Dorothée a farmi trapassare il varco insieme ad Uriel e senza di lei. Ma aveva perso troppe energie per cercare Arthur, non sapendo cosa ci aspettava non me l'ero sentita di coinvolgere in quell'ennesima avventura sgangherata. Lei aveva finito per abbracciarmi e darmi un bacio sulle guance che, in realtà mi sfiorò quasi le labbra e infine, carezzandomi mi aveva fatto promettere di fare attenzione. Ma questo non prima di aver rifilato un'occhiata torva al mio accompagnatore. Per quanto riguardava Marek beh, stranamente si era tenuto in disparte per tutto il tempo.
«Riesci a fiutare qualcosa?»
«No... quest'odore strano copre tutto il resto.»
«La cucina cinese è ricca di sapori molto speziati.» Mi avvolse il braccio attorno alle spalle e per un pelo riuscì a salvarmi da uno scooter impazzito che si faceva spazio tra la folla.
«Ma c'è una via d'uscita? In questo posto non si respira!»
Il varco ci aveva fatti finire in un vicoletto che dava la vista in questa strada piena zeppa di negozi asiatici ed un via vai assurdo di persone.
«Benvenuta a New York, piccola volpe.»
«Credo che ti sia perso qualche passaggio...» feci dubbiosa, quel posto non mi faceva pensare nemmeno un secondo all'America.
«China Town, mai sentito parlare?»
«Ehi attenta a dove vai ragazz-...» l'enorme pancia dell'uomo contro cui ero andata a sbattere, sembrò rimbalzare al colpo. Ero quasi ipnotizzata da quel movimento, ma mi convinsi a voltar immediatamente lo sguardo per non inorridirmi a tutto quel sudiciume sulla canotta. Se ne stava lì, improvvisamente incantato alla mia vista.
«Correvi da qualche parte, bellezza?» Continuò. Il suo sorriso mostrò una miriade di denti che sfumavano dal nero al giallognolo; un brivido di raccapriccio mi pervase.
Uno, non stavo correndo e due, non avevo visto quella montagna sudaticcia solo perché ero distratta dal tono saputello di Uriel e quelle labbra orribili che si contorcevano dalla soddisfazione di saperne più di me.
L'oltrepassai, sbuffando poco carinamente e palesando il mio fastidio a quelle avance scadenti. Mi sentii ben presto afferrare il braccio e mi voltai pronta a cavargli gli occhi se necessario.
«Siamo abbastanza di fretta. Ti consiglio di lasciar perdere.» Uriel lo ammonì col suo tono glaciale. L'uomo grosso e sudaticcio scoppiò in una rumorosa risata ed Uriel senza muoversi di un centimetro andò semplicemente a pulirsi il viso da una goccia della sua saliva che gli aveva evidentemente colpito la guancia.
«E tu chi saresti? Sentiamo?» Allungò una mano a scompigliargli i capelli, vidi le iridi vitree di Uriel guizzare in un movimento lento, inesorabile, si spostarono da me all'uomo che aveva di fronte ma non si mosse. Non un solo muscolo si mosse, bastava solo il suo sguardo a terrorizzare qualsiasi essere sano di mente, dopotutto. Ma, evidentemente quel tipo di sano non aveva nemmeno un pelucchio. Si voltò verso di me e mi avvolse un braccio attorno alle spalle, immobilizzandomi per la repulsione. Vidi Uriel pronto a scattare solo in quel momento, ma io fui più veloce di lui mi liberai della presa e strinsi la mano di quell'uomo fino a stritolarla e girargliela al contrario. Si mise ad urlare e chieder pietà e nemmeno io sapevo dove diavolo avevo preso quella forza, ma bastò realizzare per capire che in realtà era servito solo il mio sguardo a rendere l'uomo privo di reagire, infatti fui certa di non esercitar nemmeno un briciolo di forza in quel gesto. Erano i miei occhi fissi in quelli dell'uomo a renderlo impotente, così grosso e sicuramente più forte di me – fu lo stesso incapace di ribellarsi. Come se mentalmente lo avessi convinto che non poteva.
Lo lasciai, mi voltai verso Uriel e lo ammonii.
«Non ho bisogno del tuo aiuto.»
Ripresi a camminare, l'uomo che si massaggiava ancora la mano ed Uriel che preso da un fugace sconcerto, mi seguì. Anche se restando dietro di me e facendomi sentire i suoi occhi puntati sulla schiena.
«Cos'è questo? Un nuovo gioco?»
«Ti ho solo messo in chiaro che non ho bisogno di te.»
I mercanti provavano a venderci qualsiasi cosa ad ogni passo, ad invogliarci ad entrare in qualsiasi ristorante, ma noi due li sorpassavamo tutti senza interesse.
«Dorothée ci ha detto di aver visto un dragone d'oro.» Sviò completamente il discorso, affiancandomi adesso. «È il nostro unico indizio. Non è riuscita a localizzarlo oltre, viste le scarse informazioni.»
Mi bloccai all'istante, infondo alla strada poteva benissimo intravedersi una coda massiccia e dorata. Cominciai a correre verso di essa, non curandomi dei richiami di Uriel che comunque mi stava dietro. Più mi avvicinavo e più scovavo tra tutti quegli odori qualcosa di particolare, qualcosa di mistico. Una fragranza che non si poteva annusare su nessun essere umano.
Col fiatone, ci fermammo di fronte ad un locale con un enorme drago dorato sull'insegna. Sorrisi, voltandomi verso di lui che restò semplicemente a guardarmi, senza far nulla.
«Dai, andiamo, sbrighiamoci.» Lo incitai e prima che potesse rispondermi già ci ero dentro.
Superata la piccola entrata, c'era un bancone da bar lunghissimo e dei tavolini tondi riempivano lo spazio illuminato da vari lampadari massicci e dallo stile orientale. Sul piccolo palco in fondo, una bellissima donna dai capelli neri e lunghi intonava una canzone dalla lingua incomprensibile quanto affascinante.
«Devi piantarla di prendere iniziative avventate.»
«Cosa dovevamo fare? Inventarci un piano per entrare in un locale?»
«Posso offrirvi qualcosa?» La cameriera, snella ed alta quasi quanto Uriel, rivolse proprio a lui un'occhiata ammiccante che non aveva bisogno d'altro.
«Cosa mi consigli?» Uriel sorrise.
Lui sorrise ad una sconosciuta e a me nemmeno mezza volta aveva rivolto quel tono da marpione pensionato.
«Ti consiglio il nostro famoso gin infuso alla rosa.» Fece la bionda palesemente non cinese, con la voce gracchiante e nauseante. Voltai gli occhi al cielo attirando la sua attenzione. Mi oltrepassò con disinteresse e a quanto pare senza considerarmi come cliente.
«Se hai finito di flirtare, possiamo concentrarci?»
«Sembrava stessi flirtando?» Si sedette al bancone e mi invitò a fare lo stesso. «Hai avuto dei corteggiatori davvero orribili allora.»
«Sei tu che le hai sorriso, mica io.»
Impiegò qualche istante a rispondermi, ruotò il busto verso di me e rimase in quel modo a fissarmi.
«Ah, allora sei gelosa.»
«Te lo sogni! Io non sono gel-...»
«Ecco a te, preparato personalmente.» Ci tenne ad informarlo.
«Per me lo stesso.» A quanto pare la sconvolsi, mi guardò come se fossi un alieno e poi trattenne malamente una risata che sperai la strozzasse; ma non funzionò.
«Hai mai bevuto, almeno?» Uriel poggiò il palmo contro la guancia e lì la riposò in un gesto rilassato e... normale. Mi resi conto improvvisamente di quanto fossimo lontani ormai da una realtà simile. Seduti in un bar a bere drink dall'odore invitante, con della musica leggera in sottofondo.
Io ed Uriel.
Sembrava quasi un appuntamento.
Stavo per dirgli se gli andava di mangiare qualcosa, dimenticandomi come una stupida di ciò che eravamo venuti a fare. E se non fossi stata tanto concentrata sulle mie emozioni – avrei riflettuto proprio in quel momento su ciò che aveva insinuato Dorothée quel pomeriggio, ma forse preferii semplicemente non soffermarmici su.
I suoi occhi saettarono altrove alle mie spalle.
«Eireen...»
Mi voltai e ciò che vidi per prima fu una lunga barba bianchissima e l'odore che avevo sentito pocanzi mi investì facendomi arricciare il naso.
Era lui. Arthur si apprestò ad imboccare lo stretto corridoio vicino alla porta d'ingresso, sparendovi in un nano secondo. Io ed Uriel ci guardammo complici e prima ancora che la barista potesse dire qualcosa di disgustoso, ci alzammo di lì per seguirlo.
Imboccando quel corridoio strettissimo e claustrofobico, rimasi alle spalle di Uriel ben attenta a non farmi sopraffare dall'ansia. Era lungo, lunghissimo, così tanto che le luci fioche non riuscivano ad illuminarne la fine. Avanzammo il passo e forse la mia immaginazione mista al senso di oppressione mi giocò brutti scherzi. Vidi dalle spalle di Uriel uscire quei filamenti di nubi e ombre che ormai conoscevo bene. Mi deridevano, mi osservavano, provavano a prendermi. Lui divenne sbiadito, per quanto mi concentrassi a guardarlo – sparì del tutto lasciando spazio semplicemente a quelle malefiche spire. Disegnarono un sorriso sghembo nell'aria e d'improvviso il buio mi inghiottì.
«Uriel.... Uriel, dove sei?» Lo chiamai con urgenza, lo cercai con le mani ma non riuscivo a toccare niente se non le pareti del corridoio ai miei lati. «Uriel... sei stato tu?» Mi graffiai la gola, col mero scopo di togliermi di dosso quella melma soffocante che m'opprimeva. Forse Uriel era stato ancora una volta ingannato da Incubo, o forse ci avevano teso una trappola? Forse io avrei...
«Per punire gli uomini dei loro peccati infiniti, dio mi ha donato questa pelle chiara e questi lunghi capelli rari...» la voce massiccia e graffiata dagli anni che udii, mi sovrastò. Me la sentii addosso talmente tanto che in un primo momento, mi rannicchiai quasi al suolo. «...che essere umano potrebbe punirmi? Mezzo vestita di questi lunghi capelli color rosso pallido, dal tetto della pagoda vedo i petali dei ciliegi, cadono nel vento di primavera. Scriverò la mia canzone sulle loro ali, ingannerò i vivi e desterò scompiglio tra i morti.»
«Chi sei! Fatti avanti, non ti nascondere...»
«Come potrei essere così vile da palesarmi dinanzi a voi, preziosa kitsune?» Il suo modo di parlare era lento, penetrante.
Tutto quel buio cominciò a mettermi in agitazione.
«Sono io che te ne do il permesso.» Azzardai.
Una risata squarciò l'aria aumentando il mio disagio, mi voltai ovunque con la speranza di scorgere qualcosa o qualcuno, ma il nulla mi attese.
«Il vostro odore ha cancellato via il sudiciume di questo posto.»
Qualcosa mi sfiorò i capelli, le porzioni di pelle scoperte ed ogni volta che tentavo di sviare un tocco, così sentivo da altre parti il fastidio.
Tornai con la mente al pomeriggio dove tutto cominciò. Mi sembrò di sentire l'odore dell'asfalto dopo la pioggia, le risate di quei ragazzi e le spinte che non mi piacevano.
Il fuoco che avevo dentro si riaccese, pervasa da un senso di rivalsa e glaciale ira. La luce aranciata che come uno scudo mi illuminava ogni tratto del corpo, mi donò uno spiraglio di luce. Il viso anziano dell'uomo dalla barba chilometrica mi apparve da un palmo dal viso facendomi sobbalzare all'indietro.
Era così... vecchio. Così segnato da rughe, da macchie spaventose, gli occhi ciechi e lo sguardo corrucciato. Le labbra così sottili da sparire, le grinze dell'epidermide che sembravano pendere in avanti quando prese a chinarsi verso di me.
«Non vedevo una kitsune da quel giorno...» Mormorò. Io non mi ritrassi più anzi, mantenni il suo sguardo ed assunsi un'aria sicura e determinata.
Io era la rarità, io ero l'oggetto del desiderio. Io, ero ciò di cui tutti avevano timore. Allora perché avrei dovuto temere?
«Cos'era quella? Una poesia?»
«Solo uno dei tanti canti dedicati.» Si raddrizzò, l'ambiente attorno a noi prese a schiarirsi. «...Perché mi stavate cercando?»
«Mi dica prima dov'è finito il mio amico.»
Amico. Quella parola mi punse la lingua al punto tale che serrai le labbra nell'immediato.
«Amico.» Bofonchiò. Fui certa di aver visto un velo di ilarità. «Ammasso d'ombre ed incubi.» Sembrò correggermi.
Non eravamo più in quel pressato corridoio, ora che tutto era più vivido e chiaro, mi accorsi che ci trovavamo in una stanza dalla tappezzeria pesante, dove di fronte a me giaceva un'immensa libreria ospitante l'intera parete, sino al soffitto.
L'uomo si mosse ed io scattai seguendolo con lo sguardo, allerta come un predatore. O una preda, dipendeva dai punti di vista.
«Cosa gli ha fatto, me lo dica!»
«Eireen!»
Uriel apparse dal piccolo arco dietro la scrivania, dove l'uomo si stava riempendo tranquillamente un bicchiere di wiskey.
«Dove diavolo eri finita?» Mi venne incontro, sembrò preoccupato e pronto a scrutarmi per accertarsi che stessi bene.
«Perché siete qui?» Chiese il barbuto. Facendo oscillare i cubetti di ghiaccio in una danza cristallina ed ipnotica.
«Lei è Arthur Cremeur?» Chiese Uriel, parandosi dinanzi a me come uno scudo.
«In carne ed alcool.» Sollevo il bicchiere in un mezzo brindisi e calò giù un generoso sorso.
«Siamo qui per Trevor. Trevor Byres.» Mi feci avanti, l'espressione dell'uomo cambiò bloccando il bicchiere a mezz'aria che stava quasi a sfiorargli la bocca. Ci soppesammo tutti e tre per qualche istante, poi riprese il movimento finendo del tutto il liquido ambrato.
«Non conosco nessun Trevor.»
«Le sue emozioni dicono il contrario, non appena è stato nominato, il suo tormento mi ha stuzzicato il palato.» Uriel si avvicinò alla scrivania e senza chiedere permesso, ficcò il naso dove evidentemente non doveva. Mentre percorreva il perimento del mobile, faceva scivolare il dito sulla miriade di fogli sparsi lì sopra.
Arthur lo sovrastò in men che non si dica, gli portò la mano al collo e la strinse fino a farsi diventare le nocche rosse. L'ombra di Uriel, si fece sottile ed appuntita, si sollevò dal pavimento infilandosi tra il collo e quelle dita ossute, staccando l'uomo da lui che si allontanò accennando un riso nervoso, osservò le nostre uniformi e cominciò a cercare qualcosa nel disordine di quella scrivania. Quando riuscì a recuperare un foglio e una penna scrisse "non posso parlarne".
«Cosa vuol dire?...» Uriel mi fece zittire con un gesto di mano, prese possesso del foglio e di rimando scrisse anche lui: "ti controllano?", "da duecento anni", rispose lui.
Cominciò così una conversazione frenetica e muta.
STAI LEGGENDO
L'ultima Kitsune - I misteri della Saint Barà
Fantasy🥈storie d'amore [ COMPLETA] Un'accademia misteriosa, situata in un'isola immaginaria ai confini di una foresta senza tempo. Una storia, troppe anime collegate da fili invisibili sporchi di sangue e paure. Un'ingenua ragazza che ben presto si ritr...