Il piccolo termometro appeso alla parete segnava già 32 gradi ed erano solo le otto del mattino di un lunedì di fine luglio.

 Al commissariato di Sogara era calma piatta, da giorni non succedeva niente. Il commissario Niccolò Pannogallo, nel suo ufficio boccheggiava: il condizionatore dell'aria era rotto e nonostante le ripetute richieste di riparazione, nessuno si era ancora fatto vedere. Finestre spalancate, ventilatore portato da casa alla massima velocità e thermos gigante di acqua fresca non miglioravano la situazione e lui, sfatto e sudato, con la camicia poco professionalmente aperta, se ne stava stoicamente seduto alla sua scrivania. Il commissario era tutt'altro che un bell'uomo: alto, magro e con delle gambe sproporzionatamente lunghe rispetto al busto tanto da farlo assomigliare a un ragno di campagna... Il viso poi era veramente brutto e lo faceva sembrare anche più grande dei suoi quarantacinque anni. Il naso molto pronunciato, le guance scavate e i capelli radi già da quando era ragazzo, contribuivano a farlo sembrare un vecchio.

Il suo aspetto, assommato a un carattere non facile, gli aveva creato da sempre grossi problemi. Le ragazze, ai tempi della scuola, non l'avevano proprio mai considerato e andando avanti con gli anni aveva suscitato qualche interesse solo in donne con molti anni più di lui - interesse per altro mai corrisposto -intenzionate principalmente a mettere le mani sul suo patrimonio più che ad avere una vera relazione con lui. Le poche storie che l'avevano veramente coinvolto fino a quel momento avevano avuto tutte le stesse caratteristiche: grande entusiasmo iniziale, durata lampo e decorso complicato e burrascoso con finale deprimente. Ora era determinato a evitare di illudersi, ragione per cui la sua vita sociale era più o meno inesistente. Cocciuto come un somaro nello studio come nel lavoro, era andato avanti a muso duro fino ad arrivare giovanissimo alla carica che ricopriva a dispetto dei suoi genitori e in primis di sua madre che l'avrebbe voluto medico come succedeva ormai da varie generazioni in famiglia. Due porte più in là dell'ufficio del commissario c'era quello del suo vice. Lì tirava letteralmente un'altra aria: la temperatura era quasi da cella frigorifera. Il vicecommissario Ugo Macis, a differenza del commissario, era veramente un bell'uomo. Più alto di lui, scuro di carnagione, con un bel viso e dei grandi occhi neri, vestiva sempre con raffinatezza. Aveva un portamento da attore e quella mattina, con il suo completo color panna, sembrava proprio un divo di Hollywood degli anni '50. Teneva ben aperta sulla scrivania una copia de L'Eco di Sogara. Aveva trovato la notizia che cercava. Recitava così: "La scuola di ballo caraibico Pajero Pinto di Sogara, alle gare provinciali, ha deluso le aspettative. La coppia sogarese è apparsa in alcuni passaggi scoordinata nella salsa e anche peggio nel merengue. C'è ancora molto da fare". Non c'era un pezzetto di lui che non fremesse di piacere. Era stato escluso dal rappresentare la scuola perché, pur essendo molto bravo, a detta del maestro, con il suo metro e novantaquattro era troppo alto ed esteticamente poco adatto. Ma la giustizia alla fine aveva trionfato!

Al commissariato quel giorno era in servizio anche l'ispettore Pietro Motta alle prese, già dal giorno prima, con il distributore delle bottigliette d'acqua, reo d'avergli rubato ben quattro euro senza avergli dato nulla in cambio. Se non avesse avuto la certezza di attirare su di sé gli sguardi dei colleghi, avrebbe tanto voluto dargli uno scossone e magari anche una potente manata. Motta, coetaneo del commissario, bassino di statura e piuttosto tarchiato, era una cara persona, ma si trasformava quando si toccava l'argomento denaro: avrebbe preferito che il distributore gli avesse tolto quattro siringhe di sangue, una per ogni euro perduto. Qua e là per il commissariato gli agenti Barbieri, Ferrari e Villa cercavano un po' di refrigerio aprendo porte e finestre per creare un filo di d'aria corrente. Da qualche minuto dalla guardiola della portineriastava giungendo la voce forte e chiara, più forte che chiara, di Nina, all'anagrafe Giannina Belotti, l'unica persona che sembrava avere energia in quel torrido mattino. Nina era un donnone grande e grosso, una colonna in tutti i sensi del commissariato di Sogara in cui lavorava da circa trent'anni cioè da quando, non ancora trentenne, era rimasta vedova di un collega, morto in servizio, con un figlio piccolissimo da crescere. Pare che quando arrivò a Sogara fosse un vero schianto di ragazza e che più d'uno fra i colleghi ci avesse provato, ma senza risultati. Aveva cresciuto da sola il figlio Alberto e, con enormi sacrifici, l'aveva fatto studiare fino alla laurea in giurisprudenza. Ormai alla soglia dei sessanta, della sua bellezza, a onore del vero, era rimasto ben poco: con il passare degli anni si era parecchio appesantita e si era lasciata un po'andare. Le rimanevano i suoi meravigliosi occhi azzurri e la sua irrefrenabile curiosità a cui si era aggiunta con l'andar del tempo, una incommensurabile lingua lunga. Era al telefono e il volume della sua voce andava via via aumentando e già erano risuonati per tutto il commissariato svariati "Pota!", retaggio della sua origine bergamasca, segno che di sicuro c'era qualcosa di grosso in ballo. Nina non provò neppure a bussare alla porta del commissario e mentre diceva "Posso entrare" già era entrata nell'ufficio. Pannogallo aveva provato e riprovato a farle capire che dalla guardiola avrebbe potuto semplicemente passargli le chiamate o che, in caso di comunicazione diretta inevitabile, avrebbe dovuto per lo meno attendere il permesso di entrare dopo aver bussato. Ma era fatta così: quando doveva dare una notizia che reputava urgente decideva che non c'era tempo da perdere: si recava di persona all'uno o all'atro ufficio ed entrava direttamente.

L'ultima rosa dell'estateDove le storie prendono vita. Scoprilo ora