Si sposarono in chiesa, lei con il velo e l'abito bianco da verginella, lui la bacio prima in fronte, poi sulle labbra, per la prima volta. Rita arrossiva facilmente, ma sembrava felice. Rita amava suo padre, forse non sapeva, forse ne era cosciente e lo considerava l'estremo sacrificio per la sua salvaguardia in una città di iene. Chissà come glielo aveva raccontato il mondo Don Cesare alla piccola Rituzza, tanto da essere paga di sposare un uomo che conosceva solo di vista e gli offriva un futuro da padrona domestica, da casalinga. In realtà, nei mesi a venire, Cosimo l'aveva esortata a trovarsi un lavoro suo, a uscire più spesso di casa, ma lei non ne voleva sapere: c'era cattiva gente, diceva, e non le interessava. Un anno dopo, nel mese di marzo, era rimasta incinta e così la festa, la gioia, la commozione del nonno Cesare per il nuovo nato, Giovanni(per la scelta del nome non si era nemmeno offeso, era troppo emozionato). Non era usuale coglierlo in lacrime, né per sconforto, né per gaudio, invece ultimamente i suoi occhi luccicavano spesso di bagnato. Evidentemente anche Rita se ne era accorta, perché lo andava spesso a trovare con il bambino e ritornava sconfortata, taciturna: «Papà ci sta lasciando», singhiozzava. Cosimo l'abbracciava, premeva sulla sua giugulare una lama: urgeva parlarci a quattrocchi, farsi confessare come stessero davvero le cose e, nel malaugurato caso, afferrare le redini, prima che fosse troppo tardi; ormai non era più una questione personale, si trattava della sua di famiglia, non poteva lasciarla nelle mani degli altri. Infatti aveva imparato ad amare profondamente Rita, che lo consolava con affettuosità anche quando ritornava a casa adirato, scontroso; lei manteneva la pace, pure quando lui cercava la lite ed era d'una grazia, che non si poteva non amarla; elegante, pure nello starnutire, non si faceva sentire, sembrava d'avere adottato un uccellino appena nato, era sufficiente nutrirlo che lui cantava al mattino; riposava nella sua gabbia, in tutta la sua tenerezza, in tutta la sua bellezza. Non aveva nulla del padre, di quell'uomo villano e sgradevole, invece raccontava sempre della sua tata, Maria, che la teneva in braccio mentre girava il sugo, che le aveva insegnato a contare con le dita, che si addormentava accanto a lei leggendole una fiaba: le mancava molto; non ne aveva più saputo niente; solo il nome Maria le era rimasto, fiore di cura e misericordia, come la Madonna. Un giorno, di buono e buono, il padre aveva deciso di licenziarla, senza un preavviso, senza una spiegazione. «Si' 'ranni!», fu l'unico motivo con cui giustificò la sua assenza alla figlia. Certo a lei non era bastato: per mesi aveva lamentato la sua mancanza, pianto un'ingiusta privazione. Abbracciava sua madre, ma la ferita non cauterizzava. Da mamma sperava di assomigliarle almeno in parte, che sul suo petto Giovannino si scaldasse. Rita non parlava, ma aveva tanto da rivelare. I suoi nervi erano saldi ed elastici, come filamenti di caucciù, i suoi ricordi asteroidi, risucchiati dal buco nero che ruotava nel mare cosmico del suo delizioso cervello; sì, perfino il suo encefalo doveva essere materia grigia di preziosa armonia; tanto moriva dalla voglia di guardarlo, che indagava i suoi occhi come il buco di una serratura, per indovinare cosa stesse elucubrando, come il diorama più fascinante del mondo.
STAI LEGGENDO
Il lanzichenecco
Historia CortaLe campane suonavano a morte, allo scheletro tronfio di un malvivente.