46. La mia bambina ||Noah.

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Noah's POV.

Osservavo Faith sempre più spesso nell'ultimo periodo. Notavo il suo sguardo spegnersi giorno dopo giorno e mi sentivo così impotente da stare male.
Come avrei potuto aiutarla?
Le stavo accanto, cucinavo i suoi piatti preferiti, la aiutavo a parlare anche di argomenti che lei stessa aveva sempre reputato tabù. Ma non potevo aiutarla.
Non me lo permetteva, si chiudeva in sé e fingeva che tutto andasse per il meglio quando, in realtà, lei stessa sapeva di avere un disperato bisogno di aiuto.

Nonostante mangiasse -talvolta anche più del solito- il suo peso continuava a scendere.
Aveva due grandi occhiaie scure e le labbra erano sempre screpolate.
Non si truccava più, non studiava né leggeva.
Non si esercitava più col francese che tanto amava, non preparava più quei biscotti al cioccolato che aveva imparato a cucinare grazie a Ryan e non studiava più musica.

Faith stava scomparendo lentamente e non c'era nulla che io potessi fare per salvarla. Paige mi aveva dato il numero della psicologa di Faith, ma la chiamata non andò proprio come avevo previsto.

«Studio Fitzgerald, chi parla?» la voce calma di quella che supposi essere la segretaria mi mise quasi in imbarazzo.

«Sono Noah Scott, il ragazzo di Faith» schiarii la voce quasi pentendomi di aver telefonato. Cosa avrei dovuto dire?
«Volevo sapere se fosse possibile prenotare un appuntamento per Faith» balbettai nel nominare il suo nome e, quando sentii il ticchettio dei tasti del computer interrompersi all'improvviso, trattenni il fiato.

«Mi dispiace signor Scott, non prendiamo appuntamenti se non è il diretto interessato a chiedercelo. Le auguro una buona serata» e riattaccò la chiamata.

Erano bugie, lo sapevo bene, ma non richiamai più in studio.
Volevo aiutare Faith prima che fosse troppo tardi, ma non mi resi conto che lo fosse già. Che non potevo più aiutarla perché anche io avevo contribuito a renderla ciò che era diventata.
Mi sentivo sporco, imponente, egoista.
Perché non ero mai riuscito a guardare oltre quei suoi occhioni azzurri che un tempo riuscivano ad illuminare una stanza e che invece adesso riuscivano a malapena a rimanere aperti.

Ogni giorno mi sedevo accanto a lei e le accarezzavo la pelle morbida, mentre lei continuava a fingere di non percepire il mio tocco.
Così un pomeriggio contai tutti i suoi nei e lei, curiosa di sentire che numero avrei tirato fuori, richiuse il libro per concentrarsi su di me.
Erano centosessanta e, ormai, avevo imparato a contarli anche senza bisogno di guardarli. Conoscevo a memoria il suo corpo, forse lo conoscevo ancora più del mio.

Ricordai con piacere quando, la notte successiva alla visione delle videocassette, andammo in giardino a guardare le stelle.
Ci sdraiammo sul prato e incrociammo le braccia sul petto.

«Ho guardato le stelle tutte le sere da quando sei andato via» ammise in un attimo di silenzio. Persino il fruscio delle foglie si interruppe nel sentire quella frase così dolce e straziante al tempo stesso.

«Anche io» ammisi rimanendo immobile nella stessa posizione osservando la stella che lei mi aveva regalato per Natale. Non glielo avrei mai detto, ma era il regalo più bello che qualcuno mi avesse mai fatto.
Avrebbe voluto dire altro, Faith, lo notavo dal suo sguardo spento, ma non accennava a parlare così mi voltai a guardarla.
«Va tutto bene?».

«Sì» e non disse altro, ma non era mai stata brava a mentire. I suoi occhi parlavano al posto suo: era stanca, triste, vuota. Non era più quella bambina che avevo conosciuto l'anno precedente al ballo in maschera, quella che amava metterti alla prova per testare la tua pazienza, quella che amava il mare, quella che arricciava il naso quando non capiva una parola in francese.
Quella ragazzina tanto ingenua quanto matura non c'era più, avrei dovuto farmene una ragione: non sarebbe più stata la mia bambina.

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