CAPITOLO XVIII

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  «Cosa diavolo è un memorabilia?» Marek sollevò il viso al cielo con fare esasperato. «è un fottuto labirinto, non ne usciremo mai.»
«Sono certa che il professor Alais ne sa qualcosa. Dovremmo chiamarlo.»
Dorothée mi fece zittire con una sola alzata d'indice.
Ci accorgemmo tutti solo in quel momento che era stata muta per tutto il tempo. L'espressione tra il preoccupato ed il nervoso le corrucciavano la fronte in modo permanente.
«Si può sapere che hai? Non hai detto una parola.»
«So io cos'è.» Fece, semplicemente.
I mugolii di Tyrian nessuno sembrò sentirli, ma lei se ne accorse rivolgendogli un'espressione più addolcita. Continuava a ripetere di aver fame, e come al solito fu l'unica a preoccuparsene.
Se messi in confronto a lei, tutti e tre sembravamo davvero dei mostri senza cuore o principi.
«...Così non va. Dobbiamo portarlo ai dormitori.»
«Ma hai un deficit dell'attenzione o cosa? Prima ci dici di sapere che cavolo è un memorabilia e poi ti preoccupi della larva?»
Marek era ufficialmente esaurito.
«Per tutti gli dei! Spostiamolo altrove, diamogli del cibo e poi ne parleremo. Non possiamo restare qui per sempre. Ma teniamo la cosa tra noi per il momento.»
Uriel uscì in un tacito assenso, ordinando a Marek di imbavagliare e camuffare la "larva" per portarla in camera loro. "Ci vediamo tra un'ora!" Gli aveva urlato Dorothée prima che sbattessero la vecchia porta del casotto. Sembrò tremare tutto.

«Te la sei cavata davvero bene con Arthur sai?»
«Tu dici? ...Se ci fossi stata tu sicuramente l'avresti convinto a dirci altro. Non ha detto una sola singola parola Dorothée, ha semplicemente scritto che il memorabilia ci darà la risposta.» Sospirai, esasperata almeno quanto Marek. «E poi dovevi vedere Uriel. È strano in questi giorni, completamente assente, non dà deduzioni né si impegna in questa faccenda. Sembra un fantoccio che aspetta ordini.» Abbassai il viso e mormorai a stento. «Non è da lui...»
«Lo so, l'ho notato anch'io.»
Finalmente aprimmo la porta della nostra stanza, ci fiondammo entrambe sul suo letto sprofondando tra i cuscini che sapevano di lavanda. Tirammo un sospiro rilassato in contemporanea.
«Continuo ad avere questa strana sensazione... forse è meglio non aggiornare Alais degli sviluppi fino a che non sapremo di più.»
«Credi c'entri qualcosa?»
Lei sembrò rifletterci su, fissò il soffitto e poi corrucciò di nuovo la fronte.
«Non lo so... non so più niente.»
Stemmo in silenzio per diversi minuti, prima che le rivolgessi quella domanda.
«Ehi Dorothée...»
«Sì?»
«Ti piace Tyran?»
Guizzò via dal letto come un'anguilla, scattò in piedi e si portò frettolosamente i capelli all'indietro. A me venne da ridere, ma lei cominciò a mettere in ordine cose a caso ripetendo che ero matta, che Uriel mi aveva fritto il cervello e che dovevo stare ben attenta a non abbassare la guardia.
Le arrivai da dietro, abbracciandola e poggiando il capo sulla sua piccola schiena. Mi persi in quell'abbraccio per qualche attimo di troppo e sentii anche i suoi muscoli rilassarsi nell'immediato.
«Mi mancava tutto questo...» Mormorai.
«Sciocca. È sempre stato qui.»

Arrivare ai dormitori maschili non era mai stato così semplice. Più che invisibili, eravamo "inosservate". Dorothée ci aveva soffiato addosso una polverina ricavata dal pistillo del Flos Somniorum, letteralmente "fiore dei sogni". Cresceva ovunque lì attorno, eppure mai nessuno se ne accorgeva o lo vedeva. Il fiore dei sogni, donava la meravigliosa quanto angosciante qualità di essere invisibile agli occhi degli altri, proprio come lui. Infatti, se solo si fossero concentrati avrebbero potuto vederci sicché non eravamo realmente incapaci di rifletterci o diventate un tutt'uno con l'aria. Ci potevamo persino specchiare.
Corremmo ridacchianti tra i corridoi dei dormitori, destando un po' di scompiglio e confusione negli studenti e quasi non persi un anno di vita quando un ragazzo si voltò verso di noi tentando di capire cosa c'era di strano nell'aria. Io e Dorothée trattenemmo il respiro stritolandoci la mano fino a far diventare le nocche rosse, ma quando il presunto licantropo decise di lasciar perdere, persino il nostro viso riprese colore.
Alla fine facemmo capolino nella stanza duecentosei ridacchiando in una folata di vento.
«Ma che diavolo...» Marek sbiancò, probabilmente nel tentativo di capire perché la porta s'era aperta da sola e l'aria rideva.
«Dorothée, stai diventando una vera delinquente.» Uriel biascicò con gli occhi chiusi. Era seduto sul letto con i capelli umidi ed un asciugamano poggiato al collo. Quando smise di massaggiarsi i capelli con quella, poggiò i palmi contro il materasso e voltò letteralmente il viso verso di noi. Mi stava guardando, aveva piantato gli occhi su di me e davvero non riuscivo a capire come facesse. Riusciva a fiutare gli incantesimi o cosa?
«Sei davvero noioso. Mi sarebbe piaciuto spaventare la farfallina un po' di più.» Ridacchiò la wiccan, passando al fianco di Marek e soffiandogli all'orecchio. Lui trasalì e schiaffeggiò l'aria col tentativo di acciuffarla. Quasi subito dopo, la loro attenzione sviò per Tyran che chiedeva di continuo delucidazioni, Dorothée si affrettò a spiegare che stavamo aspettando la fine della durata di quel piccolo incantesimo, per parlare di ciò che stava accadendo.
Io, mi estraniai. Persa a scrutare il posto in cui quei due guastafeste vivevano. Era totalmente anonimo ed impersonale, solo l'odore di entrambi era marchiato da cose ed angoli. Mi avvicinai al letto di Uriel, dove lui era ancora seduto e fui incuriosita dai graffi che costellavano il muro dietro il suo letto. Erano quasi impercettibili, nascosti a metà dalla testiera.
Un senso di oppressione, che ormai conoscevo bene, mi pervase tutta. Presi ad avvicinarmi senza rendermene conto, fino a che il mio ginocchio non toccò quello di lui.
Mi fermai all'istante, immobilizzata dall'idea che sapesse fossi io.
«Vuoi molestarmi finché sei in tempo?»
«Non lo farei nemmeno sotto tortura.»
Le mie parole sembrarono non colpirlo affatto, o forse nemmeno mi sentì. Sollevò le dita a mezz'aria e tentò con insolita delicatezza di aggrapparsi a qualcosa, di aggrapparsi... a me.
Mi sfiorò il braccio ed io venni invasa da brividi.
«Trovata.» Vociferò.
Mi afferrò il polso, spingendomi contro di lui e facendomi cadere esattamente sulle sue gambe.
Viso a viso.
Trattenni il respiro e fui certa che in quel momento lui riuscì finalmente a vedermi e non per la fine dell'incantesimo.
Le discussioni degli altri tre, divennero solo un lontano e vivace parlottio.
«Volevi questo, no?»
«Ti sbagli.»
Le nostre voci erano così basse che era faticoso sentirci anche ad un centimetro di distanza.
«E allora cosa?»
Mi strinse i fianchi con le mani, mi aggrappai alle sue spalle e le distanze dei nostri visi divennero ancora più mere. La pelle sotto al suo tocco bruciava ed il ricordo del primo bacio affiorò alla mente facendomi desiderare di volerne ancora.
«Non ti bacerò.» Disse, come se mi avesse letto spudoratamente nella mente. «Preferirei non farlo mai più.»
«Io, non lo farò mai più.» Precisai. Ma le mie dita scivolarono sulla sua nuca e poi tra i capelli umidi e profumati, intrecciandosi in un groviglio fatale. I nostri occhi viaggiavano frenetici dalle labbra agli occhi, come saette guizzavano da un tratto all'altro rendendoci simili.
«Cazzo ora ti vedo!»
Marek urlò facendoci ritornare alla realtà. Come un fulmine mi spostai dalle sue gambe, lo feci così in fretta che barcollai all'indietro urtando con la testa sullo spigolo della piccola libreria dietro di me. Il colpo, fece traballare una specie di trofeo in cima.
«Eireen attenta!» La mia amica tentò di salvarmi, ma Marek lì vicino, fu più veloce. Si palesò di fronte a me e a volo prese il trofeo prima che mi fracassasse la testa. Era sospeso proprio lì e lui così vicino da farmi sentire il suo respiro.
Alle spalle, vidi Uriel serrare la mascella e sviare l'attenzione altrove.
«Se abbiamo finito di giocare a Twilight, potremmo sbrigarci? Tutto questo chiasso mi da fastidio.» Disse stizzito.
Marek mi chiese se stessi bene e io gli sorrisi annuendo, lo ringraziai chiedendomi da quando tra di noi c'era stata così tanta formalità.
Sebbene col magone, mi unii al gruppo. Io, Dorothée e Tyran eravamo seduti sul letto di Marek mentre Uriel era rimasto esattamente dov'era prima, dove ancora le lenzuola ai suoi fianchi erano state sgualcite dalle mie ginocchia. Tentai di calmare tutto quel trambusto dentro di me e pensare a cose più urgenti. Tipo Tyran che continuava a fissarmi e lamentarsi.
Marek, come al solito se ne stette in piedi a metterci fretta.
«...Arthur ha parlato di memorabilia, dopo aver saputo che abbiamo risvegliato lui, giusto?» annuimmo. «...Si tratta di un cimelio, in grado di portare alla luce i ricordi perduti, ma anche di svelare i ricordi che ancora devono accadere.»
Dorothée cacciò dalla tasca un foglietto di carta stropicciata. «Guardate, questo è quello della mia famiglia, mia madre me ne ha parlato tramite le nostre lettere quotidiane, proprio poco fa.»
Dorothée era l'unica a riuscire a parlare con un suo caro in maniera istantanea. Le loro lettere erano assurde ed uniche; magiche. Non appena la wiccan finiva di scrivere una frase, essa si cancellava come per magia facendo apparire la calligrafia elegante della madre, in risposta.
Ciò che ci mostrò fu letteralmente uno scarabocchio abbozzato a matita, da quel che si poteva capire sembrava essere una sorta di... pesce?
«Mnh... il memorabilia è un dildo?» Marek spiazzò tutti. Io arrossii, Uriel scosse la testa e Dorothée lo rimproverò vivacemente. Mentre Tyran beh, continuava a ripetere quella parola tentando di capire cosa fosse.
«BASTA!» Fece la wiccan ricomponendosi. «è... una balenottera azzurra, ok?» Marek a stento si trattenne dal ridere, ma lei continuò spiegandosi. «Mia madre mi ha spiegato che appartiene alla nostra famiglia da generazioni. Non so come funziona, non è una cosa che può spiegarmi così ma si dice vengano al mondo ancor prima delle famiglie alle quali sono destinati... quasi tutte le famiglie ne hanno uno e, cosa più importante può essere usato solo dal proprio albero genealogico.»
Dorothée fece una pausa, aprì il palmo e fece aleggiare il foglietto di carta nell'aria.
"evanescet in cinerem", mormorò fissando intensamente il disegno e così andò in fiamme proprio davanti a noi. Si sbriciolò in minuscoli cristalli di cenere che, poggiandosi sulla candida mano della ragazza, si sciolsero come se non fossero mai esistiti.
«Mnh... suppongo che non tutti i memorabilia abbiano la stessa forma.»
«Aspettate...» Marek interruppe l'amico. «Quindi ci basta prendere quel dildo e a lui ritorna la memoria?»
«No... in questo caso il memorabilia della mia famiglia è inutile. L'incantesimo che lo avvolge, deve essere sciolto dal memorabilia della famiglia che lo ha sottoposto ad esso.»
«Quindi è impossibile, visto che non sappiamo chi gli ha fatto l'incantesimo.»
«Ti sbagli Uriel, noi lo sappiamo eccome.»
«La grande Zenko...» feci assorta.
Ma certo, era l'unico nome che lui ricordava e l'unica persona che sapeva di voler o dover proteggere.
«Sperando sempre che la tua famiglia ne abbia uno, volpe.»
«Non ti viene nulla in mente? Un oggetto caro a tua madre? Qualcosa che custodiscono con gelosia?» Dorothée mi prese le mani speranzosa.
«Mnh... forse sì. C'è una sala che contiene tutti i documenti di famiglia e cose del genere... se davvero abbiamo un memorabilia, è l'unico posto dove potrebbe essere.»
«Una volta recuperato, mi consulterò con mia madre per capire come... usarlo. Ora ci serve un varco per Grisly Shore.»
«Stavolta non le faccio da balia.» Uriel si stese sul letto con i palmi incrociati sotto la nuca ed ignorò completamente tutto il resto.
«Vi accompagno volentieri, grande Zenko.» Tyran fece un mezz'inchino, spazzato via subito dopo dalla tirata d'orecchie di Marek. Non sopportavo più i loro litigi.
«Ci andremo stanotte.» Disse Dorothée decisa. «Se riusciamo a recuperarlo, domani ci vediamo qui. Se qualcuno incontra il professor Alais, noi non abbiamo ancora scoperto nulla.»

Non ero pronta a tornare nel posto che mi aveva vista crescere, sebbene Dorothée aprì un varco a fatica, durante le ore più buie della notte, il pensiero che avessi potuto incontrare i miei genitori mi faceva sentire vulnerabile.
Ero piantata con i piedi nel prato perfetto della villa Cester-Kizoku. Maestosa quasi quando i piani dell'accademia in cui mi avevano abbandonata da mesi.
«Sei pronta? Dobbiamo sbrigarci.» Bisbigliò la mia amica, mi prese la mano con dolcezza invogliandomi tacitamente.
Entrammo dal retro, forzare quella piccola serratura difettata era sempre stata la mia specialità nelle notti in cui il sonno tardava ad arrivare e me la svignavo ai piedi del fiume, respirando aria pulita e fresca. Mio padre se n'era accorto da un bel po', ma mai l'aveva fatta riparare. Era uno di quei segreti tutti nostri che non ci eravamo mai confessati nemmeno tra di noi.
Non c'era un solo singolo rumore in cucina, la oltrepassammo a passi lenti ed attenti, arrivammo al salone da pranzo e poi al soggiorno, dove quell'orribile orologio da parete rincheccava inesorabile, preciso, inquietante.
Non facemmo in tempo ad oltrepassare la stanza che quella voce calda e ferma mi trapassò il corpo come uno spillo aguzzo ed enorme. Mi sentii stracciare la carne proprio al centro dello stomaco, una voragine profondo da dove potevano contorcersi i miei organi fino a divenire striminziti ed inutili.
«Eireen.»
Fu pressoché un bisbiglio incredulo, fu un rifiuto dal sapore di rimprovero, un nome sputato via con disprezzo ed amore, con amarezza. Quella stessa che mi puntellava il retro della lingua rendendo il mio stesso palato un inferno.
Mi voltai, ci voltammo entrambe.
I suoi occhi squarciarono la penombra, illuminando qualsiasi cosa non visibile lì attorno. Erano severi e dolci.
Restò immobile, esattamente come me.
«Papà...»

L'ultima Kitsune - I misteri della Saint BaràDove le storie prendono vita. Scoprilo ora