XII. PARTENZA

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Più tardi, abbracciati nel letto, le lenzuola che ci cingevano il corpo, io e Albert tornammo a parlare di Herman. -Quando studiavamo insieme c'erano delle storie su di lui- mi raccontò mio marito, le mani che mi accarezzavano dolcemente.

-Che genere di storie?- chiesi, trascinata dalla curiosità. Una parte di me era certa che me ne sarei pentita.

-Storie brutte- sussurrò.

Alzai la testa per poterlo guardare in faccia. Il viso di Albert era immobile, imperturbabile. Attesi, il batticuore che mi spaccava in due il petto.

-Dicevano che fosse un vampiro, che venisse da una famiglia di vampiri-

Vampiro. Quasi non scoppiai a ridere. Era un termine che avevo sentito fin troppo spesso. Era un vampiro lo zio Giorgio, il presunto padre di Lotte. Era un vampiro perfino lo stesso Albert, secondo quanto dicevano al paese. Fu la serietà di mio marito a ricacciare indietro le mie risate. Come poteva crederci proprio lui che era così razionale?

-La gente s'inventa molte cose- tentai, la voce timida. Non volevo contraddirlo.

-Sì, ma Herman ha qualcosa di strano, di... non umano... non ho mai visto una persona brava in qualsiasi cosa faccia... è incredibile-

Mi sfuggì un sorriso. Forse avevo capito qual era il problema. Albert era invidioso di Herman, delle sue abilità. Potevo in fondo capirlo, forse il loro rapporto era simile a quello mio con Lotte.

-Chissà, forse esistono davvero delle creature che non sono come noi- ragionò Albert -non ne parlano in tutte le culture? Esseri che bevono il sangue dei vivi... non è poi così assurdo-

-Mimì diceva che anche tu eri un vampiro- dissi.

-Cosa?- chiese, sorpreso e visibilmente divertito.

-Hai capito bene-

-Io un vampiro... in effetti il fascino ce l'ho-

-Oh, quello molto- gli stampai un bacio sulle labbra. Lui ne approfittò subito per trarmi nel suo abbraccio e i travolgermi con la sua passione.

I giorni seguenti scivolarono via con dolce tranquillità. La vita di campagna era calma. Albert divideva il tempo tra me ed Herman, con il quale parlava di affari sconosciuti. La presenza del suo amico mi turbava. Mi scrutava sempre come se volesse leggermi l'anima, ma mi parlava poco. Qualche frase di circostanza, qualche parola generica, poco più. Mi sentivo messa in disparte. Era come se ci fosse un mondo tra di loro, un luogo in cui io, come donna, come straniera, come banale mortale, non ero ammessa.

E poi successe qualcosa che non avevo previsto. Era sera ed Albert entrò nella stanza da letto. Io ero seduta davanti allo specchio, intenta a truccarmi. Vidi subito che c'era qualcosa che non andava, glielo lessi in viso.

-Tutto bene?- domandai, con un filo di voce.

-Devo andare- mi spiegò Albert -si tratta di una missione d'affari molto delicata- il tono era pacato, calmo, ma notai che c'era del nervosismo. In quei giorni il clima era nervoso, elettrico, come se stessimo aspettando qualcosa che non si decideva ad arrivare.

-Mi lasci qua?- chiesi piano. Ero confusa, arrabbiata. Mi sentivo fragile.

-Sarà solo per qualche giorno- mi prese le mani e me le strinse. Le sue ruvide contro le mie morbide. Mi resi conto che quelle mani avevano stretto armi, avevano lavorato, avevano fatto cose che le mie non avrebbero mai fatto. Albert aveva una vita sua, amici suoi, pensieri suoi. Era un essere completamente staccato da me, senza le mie preoccupazioni. Non gli importava che io non rimanessi incinta. Nulla aveva davvero importanza per lui perché aveva affrontato veramente la vita. Aveva visto orrori e provato dolori che io non avrei mai conosciuto.

-Non so neppure la lingua- gli ricordai.

-Non sarai sola... Herman ti starà vicino, ti difenderà, gli affiderei la mia vita-

Mi affidava a uno sconosciuto. Esitai. Non sapevo cosa dirgli, come argomentare i miei pensieri. Mi sentivo stupida, in un paese straniero, in una casa che non era la mia. -Ti prego, portami con te-

-Non posso, Vivi, non c'è cosa che mi farebbe più piacere di portarti con me, ma sarebbe troppo pericoloso- si portò le mie mani alle labbra e le baciò, un dito per volta, lentamente, teneramente, dolcemente.

-Allora promettimi di tornare presto-

-Lo prometto, il prima possibile- mi lasciò le mani per avvolgermi in un abbraccio fortissimo, dentro il quale mi abbandonai. Inspirai a fondo, le lacrime che mi rotolavano lungo le guance. Non volevo che mi lasciasse. Cos'avrei fatto in quella casa così grande? E se fosse andato con un'altra? La solita paura si affacciava nella mia mente. Lotte. Correva da lei. E la fantasia prendeva le redini della mia mente. Li vedevo insieme, intenti a baciarsi, abbracciarsi, amare, a generare un altro bambino. Un altro piccolo Julien.

-Non dimenticare questa promessa- sussurrai. Era sempre una storia di promesse. Quella che io avevo fatto a Lotte quando Julien era nato -di non rivelare mai al bambino il nome del vero padre-, quella che Lotte mi aveva fatto, che mi avrebbe scritto in caso di bisogno, ora questa che chiedevo ad Albert, di tornare presto.

-Non lo farò- mi trasse a sé, le mani intorno alla mia vita -non voglio più deluderti, Vivi- e mi baciò come se al mondo esistessimo solo noi due.

Albert partì qualche giorno dopo. Lo accompagnai fino al grande cancello, nonostante mi girasse la testa.

-Tornerò presto- promise, mano sul cuore.

Io riuscii solo ad annuire, gli occhi brucianti di lacrime. E fu in quel momento che sentii una sensazione di languido calore. Voltai la testa e vidi una persona ferma dietro una finestra del secondo piano. Occhi grigi come la tempesta.

Mi costrinsi a distogliere lo sguardo e a guardare Albert che si allontanava, ma continuava a voltarsi e a farmi cenno con il capo. Non poteva sapere quanto la sua lontananza avrebbe inciso su di me. Non poteva sapere che mi stava spingendo tra le braccia di un altro.


NOTE DELL'AUTRICE:

Ciao!

Cosa ne pensate dei nuovi sviluppi?

A presto!

La principessa e la cocotte: in amore e in guerraDove le storie prendono vita. Scoprilo ora