XXXVII. AL CASTELLO

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I giorni cominciarono così a prendere una cadenza diversa. Scivolavano, quasi senza senso. Mia madre mi teneva all'oscuro di molte notizie, ma la cosa non m'importava. Scrissi molto in quel tempo. Forse scrissi troppo. Vivevo per i bambini e per la scrittura. Uscivo dalla mia camera di rado. Lotte era il mio unico contatto con il mondo. Non mi difendeva dal male che c'era là fuori, o perlomeno era sincera, mi diceva tutto. Non mi dilungo su ciò che succedeva al villaggio. Sono storie tragiche che all'epoca accadeva un po' ovunque. Gente più brava e più competente di me ha scritto pagine e pagine sulla Seconda Guerra Mondiale. Io semplicemente non ne sono all'altezza.

In quei giorni ricordai i tempi con Albert e poi quelli con Herman. Gli eventi del passato si mischiarono, si accavallarono, si attorcigliarono. Quel passato risultava ora più che mai come felice, momenti di gioia che non sarebbero più tornati. Poco importava quanto quegli amori mi avessero straziata, mi avevano comunque dato una sensazione d'illusoria felicità. Li pensavo, malinconica come mai la ero stata nella mia vita. È strano come interi ricordi siano rimaneggiati nella nostra mente. Ora ogni cosa di quel passato mi sembrava perfetta. Lotte invece era stranamente euforica, come se nulla la toccasse per davvero.

Partorii al castello. Una bambina. Mi resi conto nello stesso istante in cui la piccola scoppiò in lacrime che io e Albert non ci eravamo messi d'accordo sul nome. Decisi, dopo qualche indugio, di chiamarla Jolanda, come la Dama Bianca della famiglia. In famiglia però l'avremmo sempre chiamata Jola.

-Mi hai superata- commentò Lotte sarcastica –io due, tu tre-

-Non è una gara- mormorai, vergognandomi di quando per me la era.

-Ne sei certa?- e quelle parole mi fecero capire che per lei, come per me, tutto era una gara.

-Sì- risposi, rapida, gelida, ostile.

Lotte non aggiunse nulla, ma sorrideva. Mi chiesi cosa nascondesse dietro quel suo sorriso. Forse voleva dire che tra di noi era tutto una gara. Sì, in effetti era così. La nostra stessa vita era una continua gara. Lotte passava moltissimo tempo con Roby. Gli raccontava storie e lo faceva giocare. Erano belli insieme. Roby era un bambino precoce e intelligente. Aveva ereditato sia gli occhi verdi della madre, sia i suoi capelli. Julien stesso provava affetto per quel bambino e ogni tanto s'intratteneva con lui. Adam e Rose crescevano. Erano bambini sorridenti e spensierati. Adam era molto più vivace della sorella. Fu forse in quel periodo che notai quanto mio figlio fosse attirato da Lotte. La guardava con una curiosità e una dolcezza che pareva riservare solo a lei.

Io semplicemente sopravvivevo. Giorni che passavano sempre uguali. Io che mi perdevo nel mio regno di fiaba. Scrivevo, leggevo, badavo ai bambini, pensavo ad Albert, rivivevo i nostri momenti insieme, scacciavo quelli con Herman. Fuori la guerra continuava. In cibo era scarso, i blackout frequenti, i bombardamenti una costante, le tragedie incessanti. Seppi quasi per caso che Mimì, colui che un tempo per poco non aveva ucciso Lotte, era fuggito di prigione ed era finito in mani decisamente poco amorevoli. Non sarebbe mai più stato lo stesso.

Julien pareva molto triste in quei giorni.

-Mi manca Herman- mi confessò un pomeriggio. Rimasi molto scossa dalle sue parole. Gli mancava Herman, non suo padre.

E poi un giorno, mentre io e Lotte eravamo sdraiate sul mio letto, mia madre entrò nella stanza. Compresi subito che c'era qualcosa di strano.

-I tedeschi hanno invaso il paese- spiegò mia madre, la voce atona –credo che s'installeranno qua al castello-

La cosa mi turbò tremendamente. Al castello? Non mi piaceva quello che sarebbe potuto succedere. Si sentivano storie orribili su di loro.

-Lotte- chiamò mia madre, il tono serio –vieni, dobbiamo parlare-

Io non ero invitata in quel discorso. La cosa non mi rendeva molto felice. Fu solo più tardi, nella tranquillità della nostra stanza, che Lotte mi spiegò il motivo di quelle chiacchiere.

-A quanto pare zia vuole che sia molto generosa con il capo dei nuovi arrivati... spera così che tutti noi possiamo cavarcela senza troppi danni-

La richiesta mi sembrò crudele, ma Lotte rise.

-Penso che sia giusto così- mi disse –e poi mi piace fare la seduttrice- strizzò l'occhio.

Ora che finalmente eravamo tornate a casa i ruoli si erano rimessi a posto. La cosa però non mi fu di conforto. Non dormii bene quella notte. Sentivo qualcosa dentro di me che scavava e mordeva. Il presentimento di qualcosa di orribile e inevitabile.

Il giorno dopo eravamo nervose, pronte per quell'incontro che avrebbe potuto cambiarci la vita. Ammetto che li riconobbi subito. I suoi passi. Non appena li sentii la sua immagine comparve nella mia mente, in rilievo. E poi comparve.

Herman. Lo fissai confusa. Non era cambiato dall'ultima volta in cui l'avevo visto. Era lui ad aver preso il nostro castello quindi? Mi guardò un istante, come se lui stesso non riuscisse a trattenere la gioia.

Ero sua ora, compresi con un misto di angoscia e piacere.

-Signore... non sarò vostro nemico, ma dovrete rispettare delle semplici regole- disse, la voce più morbida di quanto probabilmente sarebbe dovuta essere in una situazione simile, lo sguardo puntato su di me. Io distolsi il mio, il cuore che tamburellava nel petto. Non ascoltai le sue parole. Ero distratta dai frammenti di ricordi che s'incastravano nella mia carne.

Herman se ne andò dopo aver finito, ma nel farlo rivolse un saluto diretto a me, chiamandomi in quel suo modo. Violett.

Mia madre si accorse subito della sua attenzione verso di me. Suppongo che fosse fin troppo chiara. Dal modo in cui mi guardava, da come cercava di avvicinarsi per poi allontanarsi. E così, da donna pratica com'è sempre stata, fece a me il discorso che aveva fatto a Lotte.

-Devi essere gentile con lui... per tutta la famiglia-

Non replicai. Sapevo quanto le costavano quelle parole. Vedevo che cercava di mantenere la voce calma, di dare giustificazioni, di trattenere le lacrime. Lei che non piangeva mai.

-Sono certa che vorrà vederti da sola... Albert vorrebbe che tu proteggessi i bambini- continuò, tremula.

-Non è come sembra... lo conosco, Herman è un amico di Albert- mi ritrovai a dire.

Mia madre mi fissò, confusa.

-Non mi guarda perché gli piaccio... semplicemente perché mi conosce-

Naturalmente mia madre non ci credette. Si limitò a ripetere che dovevo essere gentile. Io annuii. Una parte di me era contenta. I sentimenti per Herman non si erano assopiti, al contrario. Rivederlo li aveva resi più forti che mai.


NOTE DELL'AUTRICE:

Ciao!

Cosa ne pensate della presenza di Herman al castello?

A presto!

La principessa e la cocotte: in amore e in guerraDove le storie prendono vita. Scoprilo ora