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La prima volta che ti ho visto ero sul lungomare di Ostia; ti notai tra tutti perché avevi questa buffa maglietta di Topolino che ti stava un po' stretta sulle spalle e ti muovevi tra la folla in modo dinoccolato, stringendoti, quasi a voler scomparire in quella maglietta consunta.
Eri bello, come tutte le cose belle che non sanno di esserlo e io persi un pezzetto di me quel giorno dietro al tuo sguardo perso nel vuoto.
Non sapevo nemmeno che ti avrei ritrovato qualche anno più tardi tra i banchi di una scuola di cui non mi importava nulla, che a quelli come me la scuola non ha mai dato un futuro. Il massimo a cui potevo aspirare a diciassette anni era di finire a lavorare come operaio nell'officina striminzita di Gino, sottopagato e maltrattato come un ragazzino di strada per tutta la vita e questo non faceva che nutrire l'oscuro seme della rabbia che covavo dentro dal giorno che son venuto al mondo.
Quella rabbia che, come un demone impietoso, mi chiedeva un pegno, mi chiedeva di sfogarla, riversarla come catrame fuori dal mio corpo, con la minaccia che se non l'avessi fatto sarei soffocato nella mia stessa bile nera.
Dunque, come un cane rabbioso, abbaiavo a chiunque mi si avvicinasse, a chiunque osasse grattare la superficie, perché non volevo che vedessero le schifezze che vi nascondevo.
Anche con te, dal primo istante, è stato così. Ti ho visto seduto a quel banco, impettito in un quadrato che era lo spazio tuo, con quel maglioncino bordeaux da cui fuoriusciva il colletto della camicia azzurra: chi si veste così?, ho pensato, che era quasi meglio la striminzita maglietta di Topolino.
Però, avevi lo stesso identico sguardo di quel giorno al lungomare di Ostia: che non sembravi trovare differenza tra l'azzurro del mare delle coste romane e quel banco con la vernice sbeccata e le cicche appiccicate sul fondo.
La bile nera mi ribolliva dentro a vedere quella tua perfezione instancabile, sembravi fatto di vetro infrangibile e io sapevo, sapevo, che una perfezione così potevo solo sperarla. Per esserlo io o per evitare che altri potessero godere della tua, ancora non lo sapevo. Forse entrambe.
Lo sguardo tuo sembrava non sfiorarmi nemmeno, troppo impegnato ad accendersi solo per rispondere a qualche domanda di fisica, per poi tornare spento su quel dannato banco sbeccato.
Odiavo anche quel banco, che riceveva da te tante attenzioni, che quando un giorno ti vidi scarabbocchiarci qualcosa sopra, alla fine delle lezioni non potei evitare di andare a sbirciare.
E=mc²
Come il più dispettoso dei bambini, il compasso in una mano, cancellai con i graffi quella scritta, piccola, timida, come lo eri tu.
Mi sentii subito un inetto, ma mi sbrigai a nascondere il compasso nello zaino e nessuno avrebbe saputo che ero stato io.
Peccato che, alzandomi, ti vidi sulla porta ad osservarmi con uno sguardo ferito e non confuso come mi sarei aspettato. Stringesti le belle labbra tue in una linea sottile e ti voltasti per correre via.
Io me ne stavo lì impietrito, a cercare nella mia mente il senso delle mie stesse azioni.
Nei giorni a seguire, ci scontrammo per la prima volta.
Fui io ad accendere la miccia, con una battuta di dubbio gusto, ma negli occhi tuoi vidi per la prima volta una fiamma e, per la prima volta, non era rivolta ad un quesito di fisica, ma a me. Mi stringesti minaccioso i lembi della felpa e ti avvicinasti tanto al mio viso da consentirmi di notare per la prima volta il neo sulla punta del tuo naso.
Da quel giorno, accendere quel fuoco divenne la mia personale occupazione giornaliera. Ogni pretesto era buono per scatenare la rissa, per metterti una mano addosso e sentire le tue mani addosso a me: che ne sapevo, io, che le mani tue avrei voluto sentirle addosso sempre? Allora non sapevo niente.
Poi, la prima conversazione civile.
Poi il tatuaggio che t'ho fatto nel mio garage che odorava di olio motore ed marijuana.
Lo scoprire che piacere fosse ascoltare la tua voce roca esprimere i concetti che la tua mente brillante riusciva a creare dal nulla.
Non ti davo soddisfazioni, certo. Non potevo ammettere di pensare che tu fossi il più intelligente, il più brillante, in mezzo ad una coltre di anonime maschere senza fattezze.
Parlare con te divenne semplice e naturale come respirare e più ti parlavo, più mi accorgevo che la mia bile nera si dissipava, come fosse diventata acqua limpida di ruscello.
Piansi, una sera. Solo perché quel giorno tu mi avevi detto che farti fare quel tatuaggio da me era stata una delle poche decisioni giuste della vita tua, perché ti aveva permesso di scoprire che bella persona fossi in realtà.
Pensai che fosse stupido, perché io non ero una bella persona, ma quella sera piansi lo stesso, perché per la prima volta nella mia vita mi ero sentito visto e la sensazione mi aveva stravolto anche le viscere.
Ridevi alle mie battute e a me piaceva da morire farti ridere. Quando riuscivo a scheggiare il vetro infrangibile di cui ti circondavi, mi sentivo bene, mi sentivo felice.
Che fossi bello, lo avevo sempre pensato, dalla prima volta ad Ostia, ma un giorno di febbraio mi ritrovai a pensarlo in modo diverso: notai che le tue labbra col freddo si arrossano e il modo in cui ci passasti la lingua, mi fece deglutire l'improvvisa secchezza della mia gola.
Quella notte stessa mi vergognai come un ladro, quando mi infilai una mano nei boxer e dopo pochi minuti venni nella mia mano come un ragazzino, con l'immagine fissa di quelle labbra nella testa.
Malgrado la vergogna assoluta che mi fece nascondere la testa sotto al cuscino nel tentativo vano di sottrarmi al mio stesso ossigeno, la notte seguente venni di nuovo nei boxer e addirittura mi ritrovai a mormorare il nome tuo. Che lo avevo notato come il tuo nome mi scivolasse piacevolmente sulla lingua, come una caramella da gustare prima di buttarla giù.
Evitavo, quindi, di pronunciare il tuo nome intero davanti a te, sia mai che t'accorgessi del modo in cui me lo passavo tra le labbra, manco fosse una preghiera e io un chierichetto ingenuo.
La paura mi inghiottiva intero ogni volta che gli occhi mi finivano sulle tue labbra rosse strette attorno a una sigaretta e questo mi spinse a ricercare ogni distrazione possibile. Tra morbide carni femminili, tra le ciocche scure di capelli ricci troppo lunghi per essere i tuoi, in due occhi nocciola troppo chiari per assomigliare ai tuoi, in un'altezza che comunque non rasentava la tua, semplicemente mi accontentavo del controllo che poteva darmi farmi inglobare da una donna che in me, infondo, vedeva la stessa distrazione che io cercavo in lei, vedeva l'occasione di tornare alla spensieratezza adolescenziale, senza nemmeno immaginare quanto poco fossi spensierato io.
Forse fu proprio quella paura, a farmi fuggire da te.
Quando mi baciasti sulla balaustra di quel museo, che non me lo aspettavo e mi sentii impazzire al pensiero che una volta sola il tuo nome intero mi fosse scappato dalle labbra e tu avessi capito tutto; io fuggii perché è sempre stata l'unica cosa che so fare e di nuovo, la bile nera riprese a riempirmi dentro, ad occupare ogni spazio in cui prima respirava la risata tua.
Quella stessa bile maledetta che chiedeva di nuovo un pegno e che mi spinse a dirti le cose peggiori che la mia mente potesse partorire, che mica la mia mente era come la tua, mica partoriva pensieri brillanti; no, la mente mia riusciva solo a fagocitare le schifezze che nascondevo sotto la superficie e, scusami, solo quelle avevo da offrire a te, che non le avresti mai meritate.
Quando decidesti di andare via, io lo capii, davvero. Dovevi ricucire i pezzi, dovevi disintossicarti da me, che ero e sono forse l'unico veleno in grado di annientarti. La mancanza, io, non l'avevo mai conosciuta prima di te.
Mio padre manco so chi sia e mia madre è sempre stata anche padre, quando con la sua salopette da lavoro un po' rattoppata, mi insegnava a giocare a calcio da bambino, così potevo andare al parco con gli altri e non sentirmi mai diverso, mai meno. Quindi nessuno mi era mai mancato, prima di te.
Maledissi anche il giorno che t'avevo incontrato, perché se non l'avessi fatto, non avrei avuto quel magone costante, quella sofferenza lacerante che, giorno dopo giorno, ritagliava la tua sola sagoma nel mio stomaco, così da lasciare lì quello spazio vuoto, incolmabile se non dalla tua presenza. Chiederti di tornare fu la cosa più difficile e allo stesso tempo più naturale che avessi mai fatto, perché mi sentivo un egoista e allo stesso tempo il giusto detentore di un diritto, quello di averti vicino a me.
Dove potevi stare, se non accanto a me?
Che stupido, quando la sera del tuo compleanno persi il controllo, quando tu di nuovo, fosti l'unico a vedermi, che stupido a fingere che mi importasse ancora qualcosa di Alice, quando avevo gli occhi tuoi davanti a me, quando quelle labbra rosse erano a pochi centimetri dalle mie.
Cosa vuoi che m'importasse, di altre mani, quando potevo sentire di nuovo le tue stringersi attorno ai lembi della mia felpa stropicciata.
Sperai dunque di non sorprenderti, amore mio, quando guardandoti negli occhi, ti tirai in un bacio che fu violenza e delicatezza, che rimise insieme pezzi che nemmeno mi ero accorto di aver perso e che, ovviamente, dissipò la bile nera per sostituirla col tuo respiro tremulo, che si infrangeva sulla bocca mia, desiderosa solo di assaporarti ancora.
Ti baciai come non avevo mai baciato nessuno, con la consapevolezza che tu saresti stato sempre diverso da chiunque, sempre l'unico volto chiaro nella coltre di maschere senza fattezze. Amo il tuo viso e lo amai sotto quelle luci rosse che rendevano tutto sfocato, tranne te, che agli occhi miei sei sempre stato l'unica cosa a fuoco di tutto il paesaggio circostante.
Che bisogno avevo di vedere bene il resto, se potevo continuare a guardare solo te?
Se avessi continuato a guardare solo te, forse non avrei nemmeno visto la mia compagna, la mia bile nera, che, risentita del nostro continuo scacciarla, si era tramutata in un'ombra di viscida consistenza, sempre in agguato, dietro l'angolo di quel cantiere che mi era sembrato per un attimo il luogo in cui avrei rivisto il paradiso alla chiusura eterna delle mie palpebre, un giorno.
Invece, la bile stava lì, e aspettava solo che tu, amore mio, ti scostassi di poco, così da poter invadere di nuovo il mio campo visivo, sovrapponendosi a te.
La paura mi inghiottì di nuovo intero, insieme alla frustrazione più forte che avessi mai sperimentato, quando lasciasti il mio garage dopo aver sentito di nuovo la mia bile parlare per me. Non potevo fare altro che serrare le palpebre e rivedere in loop, all'infinito, il tuo cuore spezzarsi chiaramente sul fondo dei tuoi occhi liquidi, limpidissimi anche in quella circostanza. Che hai avuto sempre gli occhi sinceri tu, e incredibilmente io sono sempre stato il tuo più abile lettore. Lo sapevo dalla prima volta che i nostri occhi si sono incrociati, cosa volesse dire quell'emozione che ti pervadeva, ma era infinitamente più comodo fingere che non potesse essere così, che la nostra fosse un'amicizia forse un po' particolare, ma nulla più di quello.
Quel giorno nel garage, mentre ti ascoltavo andare via e immaginavo le lacrime bagnarti le guance, serravo le palpebre e speravo di ingoiarla una volta per tutte, questa maledetta bile, chè finché ci fosse stata lei, non ci sarebbe stato spazio per il tuo respiro tanto puro e leggero, dentro di me.
Sono stato un egoista, e devo chiederti scusa. Non so se fare ammenda sia la cosa giusta, ma so che era troppo occupato a concentrarmi sui casini della mia vita, per vedere quanto fossi disposto a darmi e quanto mi avessi già dato di te. Ero un ingenuo, convinto di entrare a gamba tesa nel mondo degli adulti, convinto di essere più astuto di loro, più intelligente e invece rimasi con un pugno di mosche, a piangere un'innocenza che non avevo mai avuto e che mai avrei potuto recuperare.
Ho passato la mia intera esistenza a preoccuparmi solo di mia madre; nessun altro mi era mai interessato abbastanza da farmi provare paura, e se pure quel sentimento era sempre stato legato alle lettere di sfratto, alle lacrime ovattate di mia madre, alle botte di omuncoli che si credono grandi e alle situazioni in cui mi cacciato che erano sempre troppo grandi, poi a sentimenti che non avevo mai mparato a gestire, io la paura la conoscevo bene.
Poi ho incontrato te, che pur di proteggermi avresti fatto di tutto, che pur di donarmi una stilla di quell'innocenza che non avevo mai conosciuto, ti saresti preso le botte al posto mio, i pugni, una pistola in una mano che non era assolutamente abituata a quel peso innaturale.
La paura mi assaliva tutte le volte che cercavi di metterti tra me e quel mondo in cui mi ero infilato a forza, cucciolo randagio in una foresta di pioppi troppo alti perché ne vedessi la fine.
Non volevo che tu vedessi quel mondo, non volevo che la trasparenza che ti aveva sempre contraddistinto da quella massa informe venisse offuscata dal marcio di un sistema che mi aveva già ingoiato e stava per rigettarmi come un rifiuto, prima di trovare te.
Ma se c'è una cosa che di te i miei occhi hanno sempre visto, è la caparbietà. Tu non ti pieghi, amore mio. Tu sei testardo di ideali che ti sono stati inculcati fin dalla più tenera età, da un padre che non ce la poteva fare ad essere padre e da una madre che era stata annientata in ciò che dovrebbe essere il più fertile dei giardini.
Tu sei caparbio, sei convinto e vai fino in fondo, arrivi nei fondali più torbidi e ci scavi così tanto da farti sanguinare le belle dita lunghe che hai.
Perciò, cosa potevo fare io, cercando di convincerti a non buttarti via per me, che davvero, non me lo merito. Tu invece ti meriti le cose belle, tutte le cose belle come sei bello tu.
E se è vero che la paura la conoscevo bene, il sapore acre del terrore vero l'ho assaporato solo quella notte, udendo quello che mi sembrò un boato inascoltabile. Tremai, sentii il sapore amaro del terrore sul fondo della lingua, le fauci ormai asciutte, il viso pallido e un sudore freddo a ricordarmi che, per quanto stessi immobile, mio malgrado stavo ancora respirando.
Perché sapevo benissimo cosa avrei trovato oltre il davanzale della finestra, era come se la mia bile, la mia compagna, me lo stesse sussurrando all'orecchio, finalmente soddisfatta mentre si nutriva del mio stesso terrore paralizzante.
Solo il tocco agitato di mia madre mi ridestò da uno stato di incoscienza che non potevo concedermi, non mentre tu aspettavi solo che le mie mani venissero a sorreggerti.
Io che la paura di perderti l'avevo interiorizzata dalla prima volta che avevo posato lo sguardo su di te, vedendoti riverso sull'asfalto non potei fare altro che piangere e chiedere aiuto, improvvisamente sentendomi di nuovo piccolo, un infante che non riusciva a trovare l'uscita di un parco giochi in cui non era mai voluto entrare.
Ti pregai di aprire gli occhi, mentre ti carezzavo le guance pallidissime, fredde di una scia di lacrime ormai asciutte e mi chiesi stupidamente se fossi caduto mentre correvi da me, a chiedermi di asciugarti quelle stesse lacrime. Ti passai le dita sulle guance e ti strinsi a me, sentendo in lontananza solo la voce ovattata di mia madre che, concitata, chiamava i soccorsi. Io ti strinsi forte al mio petto, sperando che il calore del mio corpo potesse passare a scaldare il tuo, che tanto il soffio vitale mi era inutile, se non potevo condividerlo con le labbra tue.

Ora che sono accanto a te, in questa stanza troppo bianca perché possa piacerti, io te lo voglio dire.
Bruceremo, amore mio. Che sia all'inferno o sotto il sole di Ostia, a me non importa. Che sia sotto l'abbraccio freddo dell'acqua salata o in questa stanza asettica, mi basta che sia tra le tue braccia.
È per questo che mi chino, seduto su questa sedia cigolante, sul letto dove stai disteso. Ti stringo la mano da ore, forse giorni o anni, non lo so, ma la sollevo e me la porto alla spalla, mentre appoggio il capo sul tuo petto.
Il battito del tuo cuore mi fa venire voglia di piangere.
Sento il tuo palmo sulla spalla, ma è freddo e immobile ed è troppo distante dal calore delle tue carezze, quindi chiudo gli occhi e mi concentro solo su quei battiti che veloci si rincorrono come parole su un foglio.
Voglio venire con te, amore mio, ovunque tu voglia andare, anche se dovessimo bruciare, a me non importa, mi basta sentire ancora il tocco della tua mano e io non ho più paura.
Non sforzarti a sollevare le palpebre, angelo mio. Scriverò e reciterò i tuoi addii alla terra per te, non preoccuparti.
Non dimenticherò di salutare il giardino in fiore di casa tua, le grandi mani amorevoli di tuo padre e nemmeno gli occhi dolci di tua madre. Lo faccio io per te, angelo mio.
Tu dormi e aspettami, che poi partiamo insieme e te lo prometto, per la prima volta non farò tardi.
Se vuoi andartene, lo faremo splendendo, perché la tua luce non potrà spegnersi mai.
Mi sistemo meglio sul corpo tuo, che comunque è vivo, e mi sfugge una risata umida di lacrime, perché riesci ad essere caparbio anche in questo.
E ti amo e ti amo ancora, amore mio. Non importa dove e in quale fine, io ti amo ancora.
Non importa che sia sul lungomare di Ostia, dove avrei voluto riportarti per farti finalmente vedere davvero la bellezza del mare, e lasciare che l'acqua salata lavasse i nostri cuori.
Va bene anche qui, in questa dannata stanza, sotto questa dannata luce che accentua le ombre scure sotto gli occhi tuoi.
Mi sporgo e le mie labbra secche ti baciano prima una guancia, poi l'altra.
Sto singhiozzando, mentre ti bacio anche le palpebre che non ce la fanno a sollevarsi.
Finalmente, grazie a te, sono riuscito ad ingoiare la mia maledetta bile. La odio, perché è per colpa sua se adesso sto accarezzando la tua mano pallida, ma sono costretto a ringraziarla, perché se non fosse stato per lei, forse non avrei mai incrociato gli occhi tuoi. E che vita avrei vissuto, senza specchiarmi mai in quei pozzi profondissimi?
Piango per tante cose, troppe per pensarci ora. La più forte è forse il rimpianto di non avertelo detto prima, ma non ha senso pensarci ora, davvero. Che tu voglia svegliarti e baciarmi, o che tu voglia rimanere qui a dormire un altro po', io voglio morire tra le braccia tue, perché in nessun altro posto sarò a casa come lo sono accanto a te.
Come tu non puoi allontanarti da me, io non posso sfuggirti, perché sei l'unica meta che potrei mai perseguire, te lo giuro.
È un sussurro, il mio "Ti amo ancora"; è un sussurro che affido alle tue labbra bianche, prima di coinvolgerle in un bacio che non ha più nulla di violenza o delicatezza, ma è solo la naturale conseguenza di un respiro che vorrei infondere anche nei polmoni tuoi. Ti bacio di nuovo e lo so che mi diresti che ho le labbra screpolate e, ridendo, mi spingeresti un po' più in là. Ma ora riposati, cuore mio, e prenditi il tempo che ti serve. Io resto qui, ti aspetto.
Mi accascio di nuovo sul tuo petto vivo, e mi riporto la tua mano sulle spalle, come fosse una coperta capace di proteggermi da ogni fuoco.
Sono pronto, angelo mio. Se vuoi andare, andiamo. Io vengo con te.
Ti amo ancora.

Angolino dei perché:
LO SO, letteralmente una delle prime cose che ho scritto in bio è che io non scrivo angst. E infatti non lo faccio. Di solito.
Che poi non lo so nemmeno fare, quindi tutto ciò sarà una ciofeca senza senso alcuno.
Tuttavia, ho sempre pensato che la scrittura fosse catarsi e per me questa piccola OS lo è stata. Ne avevo proprio bisogno.
Il tutto è ispirato ad una canzone bellissima (sì, la playlist Canzoni che mi ispirano ff ha colpito ancora).
La canzone in questione è On brûlera di Pomme e proverò a lasciarvi anche il link sopra, se non sono troppo tecnolesa (forse sì). Invece, il quadro in copertina è Tempesta di neve di William Turner, che con le sua pennellata e la sua violenta pacatezza, mi sembrava giustissimo. O forse sono solo una povera scema che si fa un sacco di pippe mentali.

P.S. è ovvio che io abbia pensato che subito dopo questa fine di dubbia tristezza Simone si sia svegliato e abbiano avuto una vita lunga e felice, ma questo solo perché io ho bisogno di rassicurazioni, quindi fatela finire come piace a voi.

Spero che tutto ciò vi abbia tenuto compagnia almeno un po' e adesso finalmente mi dileguo fino alla prossima follia di dubbio gusto.

Vi abbraccio sempre,
Lyss

On brûleraDove le storie prendono vita. Scoprilo ora