Simone è stanco.
Non è una stanchezza fisica, di quelle che passano con una buona dormita, è una stanchezza mentale ed emotiva che gli prende le viscere nei momenti più impensabili della giornata.
È una stanchezza che diventa tristezza e spesso si scioglie in un pianto silenzioso affidato alla federa candida del cuscino di notte, quando non riesce nemmeno a riposare gli occhi, perché la stanchezza è tanta da riuscire a tenerlo sveglio.
Spesso, Simone si sente solo. Non perché non apprezzi le -poche- splendide persone che lo amano sinceramente, ma perché sente come un vuoto, al centro del petto, che nessuna mano amica o familiare può lenire o riempire con un affetto che sa essere incondizionato, ma è perlopiù abitudinario.
Sa che i suoi amici -tre- gli vogliono bene, lo sa perché glielo dicono e perché si assicurano ogni mattina che lui stia bene, glielo chiedono davanti alle porte di legno invecchiato dell'università.
Sa che suo padre gli vuole bene, perché glielo dice spesso, quando lo chiama alla sera per assicurarsi che abbia mangiato e gli paga anche l'affitto di quella piccola stanza in centro, presa per concentrarsi sugli studi, che nella sua famiglia il bene s'è sempre dimostrato garantendo tutte le possibilità. Fin da piccolo, quando Simone voleva fare qualcosa, Dante si assicurava di tirar fuori quel vecchio portafogli di pelle nera e pagava, pagava tutto, pur di vedere quel piccolo sorriso timido formare delle fossette gemelle sulle guance di Simone.
Non sapeva, Dante, che a volte al figlio sarebbe bastato che si sedesse accanto a lui alla sera, che gli lasciasse una carezza, che il lavoro è tanto, nella vita, ma non è tutto.
Dante lo aveva capito quando Simone era già grande e ci provava davvero ad instaurare il calore che solo quella carezza non data alla sera poteva accendere, ma non può essere la stessa cosa. Simone lo apprezza lo stesso, però. Che lo sa, che fa del suo meglio.
Simone lo sa, sa tutto.
Eppure, alla sera, quando si corica, il calore candido delle lenzuola fresche di bucato non riesce a raggiungergli le ossa, non arriva a scaldarlo dentro, e quindi piange un po', per riversare fuori quel mare in tempesta che sente dentro e che gli agita cuore e polmoni. Sente la stanchezza e la tristezza mescolarsi in un punto imprecisato tra lo sterno e lo stomaco e sente il buio scendere su di lui, come melassa scura che, lenta, cala dalle pareti bianche di una stanza che diventa ogni giorno un po' più stretta.
Si sente solo, Simone, e quindi si ritrova spesso ad osservare la vita degli altri.
A volte riconosce nel magone che gli attanaglia la gola, la luce verde dall'invidia. Una luce che non fa chiaro, ma lo spinge solo più a fondo nella sua melassa.
È invidioso dei sorrisi sinceri che osserva in metro, con gli occhi mezzi chiusi dal sonno, ed è invidioso dei baci caldi che le coppiette innamorate si scambiano per strada.
Che lui, l'amore vero, non sa davvero cosa sia.
Forse non lo sa nessuno e tutti si improvvisano cultori di un argomento di cui tutti parlano, ma nessuno può dire di averlo visto davvero.
Come i miracoli.
Suo padre dice spesso che ogni forma d'amore è un piccolo miracolo di cui siamo testimoni, ma non è vero: Simone non è testimone proprio di nulla. Se non si sa che forma ha ciò che stiamo cercando, come facciamo a dire d'averlo visto?
Non è innamorato, Simone.
Però è infatuato.
Ha visto un giorno, nel chiostro dell'università, circondato dalle magnolie in fiore, un ragazzo; era solo e leggeva un libro appoggiato alla corteccia ruvida e scura di un albero, che calava su di lui qualche foglia, con una leggerezza e una delicatezza che la melassa scura che conosceva Simone non aveva mai usato.
Scopre presto il nome di quel ragazzo: Manuel.
Fin da bambino, Simone scrive molto.
Ha iniziato a scrivere poesie, da piccolo, e si sentiva davvero importante quando suo padre gli chiedeva di buttare giù qualche riga per accompagnare i regali di Natale da spedire ai pochi parenti in giro per il mondo. In quei momenti, il piccolo Simone, con le ginocchia sempre sbucciate e i capelli arruffati dal vento, sentiva di avere per sè tutte le parole del mondo.
Le sceglieva, le selezionava e quando si sentiva soddisfatto, scriveva tutto con una bella grafia, adornando i biglietti con qualche disegnino che era più uno scarabocchio, ma ai grandi piace sempre tutto ciò che gli propinano i bambini anche se, davvero, lo sanno anche i piccoli che quelli sono solo scarabocchi. Ai grandi non lo dicono, per non farli rimanere male.
Il piccolo Simone aveva iniziato a scrivere così e non si era più fermato.
Elementari, medie e poi liceo, Simone riempiva taccuini e quadernini di pensieri, parole che si rincorrevano sul foglio in una grafia che, più cresceva e più si faceva disordinata, come disordinata era la sua testa.
Rigettava il mondo intero su quei foglietti bianchi, tanto piccoli, ma abbastanza grandi da contenere il male di vivere di un ragazzo che, in questo posto, non ha mai trovato l'incastro giusto.
Li conta, i suoi taccuini, Simone: ha iniziato in terza media e ora è al taccuino numero trentadue.
Quel nome, Manuel, finisce ben presto tra le pagine di un taccuino rilegato in pelle blu, tra le righe bagnate da qualche lacrima che non riesce a capire bene, ma si impegna ad asciugare prima che possa sbavare l'inchiostro nero.
Un giorno, sulla sezione dell'oroscopo del giornale locale, aveva letto che il dolore porta bellezza nella vita e la trova una gran cazzata, perché più quel dolore lo attanaglia, più lui non lo capisce e più la melassa scura lo ricopre intero.
A Simone non piace piangere. La faccia gli si accartoccia, diventa rosso e gli occhi gli si gonfiano come dopo una notte insonne. Però gli fa bene, questo sì. Che dopo aver pianto si sente almeno svuotato e la melassa scura si ritira un po', finalmente asciutta sulle pareti bianche.
Fa un sacco di cose che non gli piacciono, ma gli fanno bene.
Piange, butta giù ogni giorno una pillola troppo grossa che però tiene sotto controllo la glicemia, studia anche quando non ne ha voglia e corre, che nemmeno correre gli è mai piaciuto. Suda un sacco, diventa rosso e singhiozza dei respiri pesanti. Correre è un po' come piangere e non gli piace fare nessuna delle due.
Guardare Manuel, però, gli piace.
Ed è piuttosto ironico, perché gli fa anche piuttosto male.
Gli fa male vedere Manuel sempre con una ragazza, molto bella, molto luminosa, che può baciarlo e prendergli la mano.
Gli fa male perché Simone vorrebbe andargli vicino e farsi vedere, ma lui non ci è proprio abituato, a questo.
A farsi vedere.
Non ci riesce e non ci prova neanche più, perché tutte le volte che l'ha fatto vedevano tutti gli altri, ma lui no. Lui mai.
E quindi Simone ha imparato a starci bene, nell'invisibilità, ha imparato a respirare, in quel limbo.
Ecco dov'è Simone: nel Limbo.
Come le anime incorporee di Dante Alighieri, anche lui si aggira come un'ombra che, sì, può parlare, ma quella che vive non è vita, è solo lo specchio di un qualcosa che non potrà avere mai.
Come per le anime del Limbo, anche lui subisce la magra consolazione di una colpa che, infondo, non ha nemmeno scelto consapevolmente.
Lo trova ingiusto, la maggior parte delle volte. Da ragazzo pensava sempre che un giorno sarebbe arrivato qualcuno a colorare la sua ombra, a dargli corpo, vita, ma non era arrivato nessuno e quindi Simone continua a stare nel Limbo e non riesce ad uscirne, per quanto tutti quei programmi motivazionali alla TV non facessero altro che ripetere che è questione di forza di volontà. Oppure suo padre, che da piccolo gli diceva sempre è l'adolescenza, ti passerà e fiorirai.
L'adolescenza l'ha passata ormai da un pezzo, ma Simone si sente ancora un soffione che nessuno riesce a considerare un fiore.
Ironia della sorte, mentre si siede sul prato di fronte al polo di Fisica e Matematica, Simone scorge proprio un soffione.
Lo guarda un po' e prova compassione per lui, come se si stesse guardando allo specchio. Il vento lo smuove, ma le spore gli rimangono attaccate, non vanno via. Vorrebbe reciderlo, ma pensa che potrebbe fargli un favore, almeno a lui.
Si china e avvicina le labbra alla piccola nuvola argentea. È un soffio leggero quello che gli riserva, ma basta, più del vento, a far volare via quasi tutte le spore.
Simone le guarda vorticare via nell'aria frizzante di marzo.
Almeno quel soffione continuerà a vivere nell'organismo che una delle sue spore genererà, invece Simone sarebbe diventato cenere un giorno e tutto ciò che gli sarebbe sopravvissuto, sarebbero stati i suoi taccuini sgualciti e una laurea spiegazzata che non vedeva l'ora di infilarsi in tasca.
Si stende sull'erba con un sospiro e chiude gli occhi, sperando che la luce calda del sole che gli filtra tra le ciglia possa sciogliere un po' la melassa tra le costole, che quel giorno è più viscosa del solito.
Ha gli occhi lucidi come se fosse sul punto di piangere, ma non sa nemmeno perché.
Poi si tira su, afferra il taccuino dalla tracolla e lo apre, su una pagina bianca.
La biro nera è attaccata col gancio alle pagine e quando la sfila resta il segno nella rilegatura, che comunque sta cedendo per l'usura.
Caccia indietro lacrime e melassa e inizia a scrivere, di getto.
È una poesia in verso libero, e gli sta anche piacendo, tanto da piegargli gli angoli delle labbra all'insù.
Poi, un pallone da calcio lo colpisce con un impatto bello forte, improvviso e il taccuino gli vola dalle mani per rovinare qualche metro più in là.
Nemmeno si cura di controllare chi lo abbia colpito con tanta forza, che il suo unico pensiero è quello di recuperare le sue parole, ormai già fuggite libere dalla mente e non più riacciuffabili.
Raggiunge carponi il taccuino, spalancato sull'erba come una carcassa, le cui membra sono esposte agli avvoltoi e sta per prenderlo, richiederlo, quando una mano dalla pelle liscia, olivastra, lo fa al posto suo.
"Oh scusa eh, Matteo tira sempre forte", e Simone la sua voce l'aveva sempre sentita da lontano, ci ha anche scritto una poesia, ma da vicino si rende conto che è tutt'altra storia.
La voce di Manuel vibra bassa e roca, sembra la carezza ruvida della lingua di un gatto e Simone ne resta incantato.
Per questo nemmeno s'accorge di Manuel che, intanto, ha sollevato il taccuino e ha sbirciato la pagina mezza bianca.
"Bella" sentenzia e a Simone manca il fiato che quelle parole non le ha lette mai nessuno e spera vivamente che il taccuino non si sia aperto su una pagina dove compare il nome suo "L'hai scritta tu?"
Simone lo guarda con gli occhi grandi grandi, ancora un po' lucidi, mentre sta ancora carponi sull'erba ed è quasi certo di essersi macchiato le ginocchia dei jeans chiari.
"S-sì, me lo ridaresti?", la smania di avere la sua anima di nuovo al sicuro nella tracolla, lo spinge a sollevare il palmo della mano, macchiato di verde.
Manuel annuisce piano mentre lo guarda, ma prima di restituirglielo, si concede un'altra occhiata e indica un punto in particolare della pagina.
"Questa parte qui" dice "È proprio bella"
Poi gli restituisce il taccuino e con un cenno della mano, va via, tornando alla sua partita di calcetto improvvisata.
Simone osserva la sua schiena allontanarsi e poi gli occhi corrono al punto di carta bianca che l'altro ha toccato solo un attimo prima.Voltati,
Che se solo bastasse voltarsi
A me non mancherebbero addii e arrivederci,
Ma solo gli occhi tuoiNon sa nemmeno perché Manuel gli piaccia tanto, che nemmeno lo conosce di persona. Sa solo che lo ha visto leggere e lo ha trovato tanto bello da scriverci una poesia, incentrata sui suoi tratti delicati adombrati a tratti dalle foglie che, lente, cadevano al suolo. E tanto è bastato. Per molti mesi.
Quel giorno poi, ha iniziato a piacergli un po' di più.Qualche giorno dopo lo rivede, che è seduto sul muretto del giardino fiorito e nota che i colori delle magnolie gli stanno benissimo, sulla pelle abbronzata.
Prende un respiro profondo, che quella notte la melassa l'ha di nuovo fagocitato intero e non è uno dei suoi giorni migliori.
Pensa però che può sedersi un po' a osservare le magnolie. E Manuel, che è di nuovo assorto in qualche suo libro.
Si siede su un muretto poco distante e poco dopo, apre di nuovo il suo taccuino.
Inizia a scrivere di quella notte, che ha pianto tanto forte da sentire l'aria congelarsi sul fondo della trachea infuocata e che quella mattina, respirare, fa un po' più male del solito. Che è dolorosamente consapevole del suo respiro, del peso di ogni boccata d'aria leggera. Della sua importanza.
La bolla scoppia quando un'ombra si staglia di fronte alle sue ginocchia incrociate sul muretto di mattoni rossi.
Alza gli occhi e Manuel è lì, in piedi e gli sta sorridendo.
"Ciao, mi piacerebbe leggere ancora qualcosa che hai scritto tu", gli dice e Simone schiude le labbra, inatteso.
Istintivamente, abbassa lo sguardo sulla pagina bianca macchiata di nero: è un taccuino nuovo, iniziato appena tre giorni prima.
Tra quelle pagine, l'unica traccia di Manuel è un foglio ormai ingiallito, strappato, che conserva al centro della risma candida, su cui corre una poesia breve, che parla di un ragazzo bellissimo che legge all'ombra di un albero di magnolie.
Quelle cose, non le ha mai lette nessuno.
E forse è il fatto che Manuel non lo conosce, che non sa della melassa scura che gli si agita tra stomaco e sterno, o forse è il suo sorriso, o il modo gentile con glielo chiede.
Fatto sta che Simone manda giù la sua melassa, che smette di tremare tra lo stomaco e lo sterno, e gli passa il taccuino, con un sorriso timidissimo che fa nascere di nuovo quelle fossette gemelle.
Manuel prende il taccuino tra le dita con delicatezza, e gli sorride di nuovo.
"Io sono Manuel, comunque"
Lo so, vorrebbe rispondere, t'aspetto da una vita.
Ma si limita a rispondere "Simone", mentre gli sorride e si gode le magnolie in fiore che fanno da cornice al volto dell'altro, tanto bello da sembrare il sole che le sta facendo sbocciare.Angolino dei perchè:
Io ste cose le pubblico di notte perché di giorno non avrei proprio il coraggio, veramente.
Questa cosa è nata come un piccolo sfogo, e si è tramutata in una mia piccolissima, personalissima, verità.
Scusate per lo sgorbio e la malinconia.Vi abbraccio,
Lyss💓