Cammino tra le strade del mio paese con passo svelto, consapevole di non avere una meta o di non essere in ritardo per un appuntamento, i miei passi sono in sincronia con il mio respiro ormai troppo agitato ed impossibile da controllare. Il tremolio delle gambe non mi dà tregua, le mani non riescono a stare ferme e continuano imperterrite a spostare le ciocche di capelli, le quali mi coprono gli occhi ormai colmi di lacrime. È lei, l'ansia. L'ansia è una donna innamorata che non se ne va nonostante provi a mandarla via, è un parassita che rimane lì fino a che tu non ne diventi succube. Impossibile da guarire in quanto non c'è medicinale capace di contrastarla, un tumore all'anima che si espande a macchia d'olio. Invalidante, invisibile agli occhi ma letale. Quante situazioni, scelte e momenti rovinati solo per la sua presenza, il respiro corto, il leggero tremolio delle mani e quelle lacrime trattenute con forza cercando di non darle vinta, ma lei, lei vince sempre. Lei mi conosce, sa come prendermi e trascinarmi in quell'oblio, e posso urlare, lottare cercando di tagliare il cordone ombelicale che ci lega, ma ormai è il mio feto che con fatica mi porto dentro, rendendo pesante e faticoso ogni mio passo. Per quanto la vita possa essere bella, lei è capace di farti vedere sfocato una figura nitida, è capace di farti sentire rumori in silenzi, capace di togliere colore anche al più luminoso tramonto. L'ansia è una ladra, una sanguisuga che ti tira via la voglia di vivere per riuscire a restare lei in vita. Non bisogna confonderla con il pessimismo, il quale è una forma di pensiero ed una presa di posizione, ella invece è una patologia che non ti scegli.
Il suono armonioso della pioggia viene disturbato dal rumore assordante del traffico, contornato dalle risate dei passanti, le quali vanno a scemare con l'aumentare dei passi e sostituite da quel ragazzo sognatore che accarezza le corde di una chitarra. Il profumo di ciambelle fritte, proveniente da una bancarella, dove il gentile signore sfoggia il suo più bel sorriso nel porgere la sua specialità al bambino dinanzi, il quale non desidera altro che spolverarsela in un battibaleno, si sposa con quello dello zucchero filato proveniente dalle mani di una bambina il cui volto è coperto dall'enorme e soffice nuvola bianca zuccherata.
Una coppia di anziani che si tengono sottobraccio cattura il mio sguardo, lei una signora paffutella, un po' goffa in quelle scarpe che non le danno tregua, forse troppo strette. Nel suo viso segnato e dolce spicca il rossetto rosso imperfetto il quale si intona con il suo smalto. Lui estremamente elegante, il suo corpo asciutto e snello sfoggia un completo blu scuro esaltato dal gilet ricamato dove spunta un orologio tascabile. Il suo volto è più duro, le sopracciglia bianche aggrottate e la sua pelle tesa lo dimostrano. Tra le labbra un sigaro spento viene mordicchiato di tanto in tanto mentre con parole poco udibili e storpiate, in quanto disturbate dalla presenza del sigaro, si lamenta della presenza di rifiuti lasciati marcire sull'asfalto. Percepisco la loro voce rotta ma calda e riesco a sentire la donna esclamare:<< Sandro io davvero non ti sopporto più, non finisci mai di parlare >>, ma il modo in cui lei amorevolmente lo guardò, la tradì. Lui, con lo stesso sguardo, borbotta disperato stando attento a non far cadere il suo sigaro. Un accenno di sorriso spunta sul mio viso, mi fece pensare al continuo amore e odio dei miei genitori reso in equilibrio dalla voglia di restare uniti, consapevoli di aver bisogno l'uno dell'altro. Nei momenti in cui il mio cuore si impietrisce e la razionalità prende il sopravvento, entro nella loro camera, apro l'armadio e rovisto tra i loro ricordi. Mia madre tiene ben nascosta una scatola dove al suo interno c'è la loro storia: lettere d'amore scambiate quando mio padre era in militare, dediche su fazzoletti dei bar, scontrini dei loro primi acquisti, frasi stropicciate dei baci perugina e centinaia di foto che mio padre amorevolmente le scattava essendo per lui la sua musa e il centro dei suoi scatti. Inalando la loro storia è come se prendessi in prestito il loro amore e lo facessi un po' mio, come una ladra che ruba qualcosa che non le appartiene ma che lo custodisce egoisticamente come se ciò che ha rubato fosse davvero suo.
Continuando la mia insensata corsa, pochi passi più avanti mi cimento ad osservare una ragazza che cerca di strappare l'ultimo bacio al proprio ragazzo, i loro volti vengono illuminati dai fari dell'auto dove il padre la aspetta impaziente. Lei prima di andare via regala un ultimo sorriso alla sua metà, il sorriso del primo amore, inconfondibile e privo di paura. L'amore che pensi sia eterno, immutabile, che vivi senza protezioni perché non puoi mai pensare che un qualcosa di così bello possa ferirti. Dicono che il primo amore vissuto nell'età adolescenziale sia il più puro, ed io mi sento di confermare. Gli amori successivi sono più teorici e razionali, si pensa solamente a ciò che puoi ottenere dalla persona con cui stai senza soffermarsi sulle emozioni provate, sono rapporti di convenienza buttati via alle prime difficoltà. Non si è più capaci di risanare, di curare un amore, di trovare compromessi anzi ci si concentra sui difetti, senza cercare insieme di migliorarsi e capirsi. Il vero amore è ormai un'utopia, si cercano rapporti perfetti ma vuoti tenuti in vita dal solo esibizionismo e dall'estrema paura della solitudine, la quale è tanto temuta ma che io reputo estremamente affascinante e produttiva in quanto permette di focalizzarci su noi stessi senza essere sbilanciati e offuscati dai sentimenti per persone esterne. La solitudine per me è un dono, un'opportunità e sarò disposta a metterla da parte solo per chi è capace almeno di eguagliarla. Potrò mai accontentarmi? Posso accontentarmi di una macchina meno costosa, di una casa più piccola, di un lavoro e di uno stile di vita più modesto ma non posso farlo per l'amore o per l'amicizia.
Distratta dai miei pensieri non mi resi conto che la pioggia non batteva più sul mio ombrello che tenevo stretto come se quel manico fosse una mano che tentava di farmi sentire al sicuro. Un lampione illumina una panchina che con inspiegata fretta voglio raggiungere, sperando forse di trovare inconsciamente lì la cura per le mie innumerevoli ansie. La raggiungo. Mi siedo e lascio cadere le mie mani sul legno umido e, mentre con gli occhi bassi e persi, fisso i lacci delle scarpe, sento dei passi avvicinarsi.
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