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«Ematoma Subdurale

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«Ematoma Subdurale.»
«Arteria radiale compromessa.»
«Preparate la sala operatoria.»
«Poche possibilità di sopravvivenza.»

Quando Diana aprì gli occhi dovette prendersi qualche istante per capire cosa fosse successo. Gli stimoli sensoriali le sussurrarono che non fosse viva, ma neanche morta. Fu risucchiata in uno stato confusionario fino a portarla ad avere tutto in subbuglio. Sbatté con forza le palpebre, dando la giusta forma a tutti gli oggetti sfocati che vedeva, esplorando con lo sguardo parte della stanza spoglia d'ospedale.

Non riuscì a trovare una spiegazione su come ce l'avesse fatta a sopravvivere. Nella sua testa le parole sfumate dei dottori si ripeterono come un canto premonitore, annunciando ai suoi genitori le poche probabilità di salvezza.

«Ce la farà, lei è forte.» Rispondevano ogni volta.

Diana strizzò gli occhi, un dolore all'altezza delle tempie non riuscì a farle acquistare la chiarezza che tanto desiderava. Mise in rassegna tutti gli eventi strani che si erano susseguiti nell'arco di ventiquattro ore. La sua vita era ormai senza controllo, le era sfuggita di mano. Tutto quello che sapeva sembrò ormai un concetto astratto.

Aveva scoperto di essere stata adottata, che suo padre/zio era, forse, morto da tempo. Aveva assistito ad una apparizione di un essere sovrannaturale e subito dopo quel ragazzo misterioso l'aveva salvata. Mi ha portato lui in ospedale? Pensò, cercando di ricordare. Ma dopo l'ultimo contatto con la figura indefinita, vi era solamente il vuoto.

Lentamente girò il capo, notò Peter dormire su una scomoda poltroncina riposta nell'angolo. Per qualche istante rimase lì a osservarlo. Il suo volto era contornato dai tanti capelli spettinati, il capo era sostenuto in modo precario dal lato sporgente dello schienale.

Diana notò le sue occhiaie e pensò che quella poteva essere la sua prima dormita dall'incidente. Cercò di richiamare la sua attenzione ma si accorse di avere la gola secca, una patina sulle labbra le diede una sensazione di viscosità. Notò una bottiglia d'acqua sul comodino riposto al fianco del letto, cercò di afferrarla ma il suo corpo non riuscì a coordinare ogni singolo movimento.

L'oggetto in plastica cadde per terra spezzando il silenzio. Il padre trasalì per lo spavento e, per poco, non cadde dalla poltroncina. Non per niente adatta alle sue dimensioni.

«Finalmente ti sei svegliata.» Peter corse verso il letto, abbracciandola.

Diana notò i suoi occhi lucidi e si sentì terribilmente in colpa per tutto. Stare sul punto di morire le aveva sciolto i sentimenti e snebbiato la mente. In parte.

«Mi dispiace, ier-»

Ma prima che potesse continuare la frase, Peter le spiegò che erano passati cinque giorni da quella sera. I dottori l'avevano definita miracolata. Se non fosse stato per un gruppo di motociclisti di passaggio, molto probabilmente, ora sarebbe stata più che morta.

Diana in quel momento roteò gli occhi al cielo, rivolgendo i suoi pensieri a quel ragazzo misterioso. L'aveva salvata, da una parte, e condannata, dall'altra, lasciandola a dissanguarsi sul ciglio della strada.

Che stronzo, pensò.

«Vado a chiamare tua madre e i tuoi amici per riferire la notizia, non ti muovere.»

«Anche se volessi, non posso.» Mormorò a sé stessa, Peter aveva già varcato la soglia della stanza. Rimase immobile a contemplare lo spazio attorno a sé, immersa in un silenzio quasi appagante, ripensando ancora gli attimi dell'incidente.

Non riusciva ancora ad associare ogni immagine sfocata, intrappolata nella sua mente, ad una spiegazione degna di razionalità. Ma soprattutto voleva capire cosa avesse davvero procurato l'impatto.

Se c'erano altri di quei cosi infernali in giro, nessuno era al sicuro. Una parte di lei era consapevole che, in condizioni normali, non sarebbe dovuta sopravvivere ma qualcosa voleva che lei restasse in vita. Non riuscì a spiegarsi quella strana sensazione.

Finì solo per ringraziare la forza del destino. Aveva appena diciotto anni, infondo, voleva innamorarsi, poter viaggiare per l'Europa e comprendere ogni elemento del suo passato. Ma in cima alla lista inserì una patente di guida e un modo per ripagare Peter per il danno riportato all'auto. Era stata stupida ed egoista.

«Si è svegliata, dobbiamo avvisare il capo.»

Diana si tese con i muscoli contratti e doloranti. Udì quella voce in tono quasi impercettibile, ispezionò ogni punto della stanza ma non scorse nessuno. Pensò essere l'eco del corridoio.

Ma poi si ripresentò di nuovo: «Secondo me ci sente.»

«Allora non parlare, stupido.»

Diana arrancò ad afferrare un coltello di plastica riposto sul comodino. Furono voci fin troppo nitide per pensare che fossero solo frutto della sua immaginazione. Non riuscì a capacitarsi del brutto scherzo che il suo cervello aveva deciso di farle.

Poi suo padre varcò la soglia della stanza: «Cosa ci fai con quel coltello?» Chiese con sguardo preoccupato. Pensò che gli scatti d'ira fossero ritornati ed ebbe il timore che si potessero aggravare a causa dei danni riportati al sistema neurale.

Diana lo mise a posto, scuotendo la testa, cercò di scacciare gli ultimi venti secondi della sua vita. Non voleva sembrare una pazza o dare ulteriori preoccupazioni. «Niente, sto verificando l'autonomia delle mie mani.» Disse semplicemente, sperando di non dover dare ulteriori spiegazioni.

Quando si guardò le mani, i suoi occhi furono segnati dai fili scuri della sutura contornarle metà braccio e parte del dorso della mano. Sfiorarli con le dita le procurò un brivido lungo la schiena. Diana fu amareggiata. I conti con le cicatrici, che sarebbero rimaste impresse per sempre sulla sua pelle, l'aspettavano dietro l'angolo. Ma doveva farsi forza, doveva combattere per far ristabilire il suo corpo e tornare a quello che aveva lasciato in sospeso. Avrebbe pensato ad un altro piano, questa volta, studiato con maggiore minuziosità.

Un dottore entrò poco dopo nella stanza, trascinandosi dietro delle lastre nere su cui erano stampati forme rotonde e irregolari.

«Sono contento di vederti sveglia.» Le disse. «Hai fatto la bella addormentata per un po'.» Inarcò un sorriso, fiero della sua battuta.

Diana ricambiò, accennandone uno tirato. Percepì la scia di nicotina che seguì il dottore come un'ombra, il rigonfiamento rettangolare nella tasca del camice le diede la conferma dell'aroma pungente.

«Come ti senti?» Proseguì senza avere un responso e osservando il monitor dei parametri al suo fianco.

«Bene.»

Il dottore avvertì il tono sprezzante e con sguardo borioso la sgranò dalla testa ai piedi. Si accinse verso un pannello illuminato, fissato alla parete, dove attaccò le varie lastre della Tac.

 «Mi sa dire come ti chiami?»

«Diana Mitchell»

«Quanti anni ha?»

«18»

«Sai raccontarmi cos'è successo il giorno dell'incidente?»

«Perchè lo vuole sapere?»

«Nessun segno di afasia, interessante.»

«Dottore, c'è qualcosa che non va?»

A quel punto, l'uomo pigiò un bottone nel lato del pannello e una luce penetrò attraverso le immagini, rivelando dettagli intricati del cervello di Diana. «Le analisi hanno dato esito positivo e domani vostra figlia potrà tornare a casa.» Si rivolse alla paziente. «Il tuo corpo ha subito molti danni ma il percorso di guarigione è stato del tutto impressionante.» Con un dito, sottolineò l'area che aveva attirato la sua attenzione. «Questa che vedete si chiama area di Wernicke. Si trova nella parte posteriore della corteccia cerebrale del lobo temporale sinistro e serve per la comprensione del linguaggio.»

Diana guardò attentamente, cercando di capire cosa vedesse il dottore. Lì, in quella zona, c'era qualcosa di anomalo, una strana ombra dai colori vivaci sembrava essere fuori posto rispetto al resto del cervello.

«Risulta essere stimolata... oserei dire anche sovra stimolata»

«É qualcosa di preoccupante?» Domandò Peter con voce ansiosa.

«In verità non lo so.» Meditò lui. «Ogni area del cervello è interdipendente, in modo da poter svolgere ogni funziona cognitiva. Invece qui abbiamo alterazioni indipendenti e senza procurare danni al cervello.» E rassicurò che, per quanto inspiegabile, non sembrava essere motivo per un ricovero. «Nei mesi a seguire ti terremo sott'occhio ma ora hai bisogno di stare tra le mura di casa tua e riposarti per la convalescenza.»

Peter fu al settimo cielo, ma Diana non si sentì così.

Il malessere psicologico si mise a braccetto con il malessere fisico. Un duo non proprio ben accetto.

«Perché sei scappata?» Peter pose una sedia al limitare del letto, aveva aspettato che il dottore si allontanasse dalla stanza prima di poter toccare quel nervo scoperto. «Quando ci hanno chiamato pensavo di averti persa.»

Diana vide una lacrima rigargli il viso e realizzò di non averlo mai visto così fragile ai suoi occhi.

«Non puoi capirmi.» Pronunciò quella frase con sconforto.

Ti lascio la cosa più preziosa, così aveva scritto Aegir nella lettera lasciata a Peter. Ma, a lei, aveva rimasto un mucchio di frasi senza un vero e proprio significato. Diana si sentiva importante per le persone sbagliate e non essenziale per quelle che avrebbero dovuto essere i pilastri della sua vita. Nessuno era mai venuta a cercarla.

«Se non ci provi, non lo saprai mai.» Peter le prese la mano, accarezzandole le escoriazioni sulle nocche. Le labbra si posarono su di esse e guardò Diana come un estensione del suo cuore.

Quel contatto fisico inaspettato, ma carico di affetto, riuscì a tranquillizzarle l'animo, dandole un po' di pace.

«Questa vita non la sento più mia, c'è una forza dentro di me che mi spinge a scoprire i segreti del mio passato. Di Aegir e di mia madre, chiunque essa sia. Non posso fare finta di niente.»

«Nessuno ha detto che dovrai farlo.»

«Ma... come faccio a vivere così? Che non riesco a riconoscere me stessa?»

Peter inspirò: «Bambina mia la vita saprà sempre come assalirti, forse soffrirai così tanto che penserai di non farcela. Ma non puoi permettere che, oltre al corpo, la vita ti consumi anche il cuore. Solo il tempo ti darà le risposte che stai cercando. Io sarò a fianco a te, a sostenerti in ogni tuo passo. Questo te lo posso assicurare.»

Diana alzò lo sguardo verso di lui, le sue parole aumentarono i rintocchi del suo cuore e il monitor multi parametrico lo confermò.

«Ma ti chiedo di non scappare più da me.»

Quello che non poté comprendere con la ragione, Diana, lo fece con il cuore. Realizzò che il vero pilastro della sua vita lo aveva sempre avuto di fronte a lei. L'atmosfera di complicità rasò ogni sensazione negativa che la portava a desiderare di allontanarsi da lui. Ma era stato proprio quello lo sbaglio più grande.

Peter c'era sempre stato, le aveva insegnato tutto quello che sapeva. Cercava di farla diventare la donna forte e matura che Diana tanto desiderava essere un giorno. Le dispensava consigli su come abbattere i pregiudizi che le affibbiavano a scuola e a vivere ogni momento a testa alta. Diana non sopportava essere trattata come una teiera di porcellana costantemente sull'orlo di un tavolo. Non lo era. Anche se, con tutte le cose che le stavano accadendo, si sentiva più sull'orlo del precipizio. Doveva prendere le redini della sua esistenza e suo padre era pronta ad aiutarla, a tenderle la mano, come faceva da sempre.

 «Hanno trovato questa nella tasca dei tuoi jeans, sicuramente la rivorrai.»

Le mostrò la collana lasciata in dono, Diana fu felice di poterla riavere tra le mani. Si era rassegnata al fatto di averla persa nel trambusto dell'incidente. La superficie fredda della pietra splendente come l'ossidiana, le pizzicò la pelle. La ripose nel taschino del pigiama, non aveva ancora avuto il coraggio di indossarla ma ci tené ad averla vicino al suo cuore.

«Grazie.» Sussurrò con la gola secca. «Ma ora sono stanca morta.» Diana fu desiderosa di riprendere totalmente le forze per il giorno dopo. Le vertigini scalarono il suo corpo, fino ad arrivare dietro la retina dei suoi occhi. E forse, pensò, erano state proprio le vertigini a farle percepire strane voci irreali.

«Rimango qui con te.» Le mormorò il padre ma lei non voleva che dormisse un'altra notte su quella scomoda poltroncina, quindi, lo invitò a tornare a casa.

«Non se ne parla!»

Tra le labbra di Diana si formò un sorriso beffeggiante: «Se non riusciamo a trovare una soluzione, la morra cinese lo farà per noi.»

Quello era un piccolo rituale tra padre e figlia ogni volta che non arrivavano a prendere una decisione. Insistendo che, sono io il genitore, non rappresentasse una valida motivazione per avere la sovranità sulle situazioni.

Peter la guardò con dolcezza. Nonostante quello che stava accedendo, si rincuorò di vedere Diana attingere alle loro personali tradizioni. Non si oppose, portando il pugno a mezz'aria con l'angolo della lingua stretta tra i denti. Diana vinse con grande margine, conosceva a memoria la sequenza di mosse che adoperava Peter.

Quando provò a controbattere, lei lo sorpassò «In caso di necessità ci sono medici e infermieri ovunque.» Lo confortò «Domani mattina mi troverai sempre qui ad aspettarti.»

***

Quando si svegliò nel cuore della notte Diana imprecò contro sé stessa per essersi addormenta troppo presto. La sua stanza era soffusa da una luce fioca, regnava il silenzio, spezzato solo dal gocciolio ricorrente della flebo.

Con lo sguardo travalicò la soglia della porta aperta, studiando la posizione delle lancette dell'orologio posto nel corridoio. Erano le quattro del mattino e suo padre l'avrebbe raggiunta tra solo altre quattro ore.

Già annoiata, Diana cercò il proprio cellulare tra i suoi effetti personali ma non lo trovò. Dovette digerire che fosse andato perso nell'incidente. Così prese tra le mani il telecomando, la TV si accese stabilizzando i colori poco alla volta.

Era sintonizzato su un canale dedicato ai documentari. Quando pigiò qualche bottone, si rese conto che nessuno rispondeva ai comandi. Sprofondò nel cuscino, imprecando sotto voce. Il servizio dedicato all'isola del NeverDied si rivelò fin da subito noioso. Conosceva a memoria il fascio di mistero che avvolgeva quell'isola.

Essa era situato al largo del mare di Caserland, dalle coste appariva come un puntino fumante. Nessuno osava mai andarci, le correnti trascinavano le barche contro scogli di pietra calcarea. Nel tempo queste si erano create lungo tutto il perimetro, l'acqua salata le aveva corrose fino a diventare spuntoni fatali. Le leggende metropolitane del posto raccontavano che alcuni pescatori, riusciti ad approdare, non avevano mai fatto ritorno. Di loro rimanevano solo urla nell'aria.

Il NeverDied era un'isola arrogante sotto agli occhi di tutti. Rimasta ignorata perché innocua se non disturbata, divenendo così l'emblema del mistero. E a Diana non importava di certo lo strazio dei finanziatori impossibilitati di mettere le mani sulle ricchezze che l'isola potesse nascondere.

Così si girò su un lato, la voce narrante del documentario fece da collante ai suoi pensieri.

Voleva scusarsi con sua madre, riempirla di baci e di ripeterle quanto le volesse bene. Poi pensò ai suoi amici. Da una parte fu lieta che l'incidente non aveva coinvolto nessun altro che lei. Se gli fosse successo qualcosa, Diana non se la sarebbe mai perdonato.

Dopo svariati ticchettii dell'orologio, decise di alzarsi. Voleva costatare il livello di autonomia del suo corpo. Si era promessa di lasciare l'ospedale con i propri piedi e non su una sedia a rotelle.

Quando riuscì a sedersi con i piedi penzolanti, avvertì dei capogiri. Non si fece prendere dal panico, sapeva che fosse la normale prassi della convalescenza. Dopo cinque giorni confinata a letto, i suoi arti si erano irrigiditi come tubi di ferro. Attese qualche istante, fissando un punto nella stanza e regolarizzando il suo respiro. Quando si sentì pronta poggiò il piede destro sul pavimento. Rabbrividì per la freddezza intrappolata nelle piastrelle ma ringraziò di avere ancora totale percezione dei nervi.

Sicura di sé stessa, poggiò anche il sinistro. Provò a muovere qualche passo ma non ci riuscì. Fu difficile solo mantenere il concetto di equilibrio ed evitare di cadere. Una sensazione di impotenza la portò a scoraggiarla prima ancor di riprovare, si sentì una bambina alle prime armi.
Diana si sedette di nuovo sul letto, con il volto inclinato, osservò afflitta il tessuto caldo del pigiama avvolgerle le gambe. Rigida come una statua, non poteva fare altro che aspettare le infinite ore che la dividevano dal suo ritorno a casa.
Trasalì a un tratto, alzando i pugni in allerta, quando udì dei passi venire dai corridoi. Sbuffò, rimproverandosi per la reattività. Era solo il personale sanitario che rispettava l'obbligo di essere sempre reperibile. Quei cosi infernali non potevano di certo farle visita in ospedale. Così dischiuse i palmi delle mani, spingendo contro il materasso per rimettersi distesa.

Ma il sorriso vittorioso dell'impresa sparì poco dopo.

Una strana sensazione si avvinghiò nel basso ventre quando scorse delle figure designarsi sulla soglia della porta.

Non avevano l'aria di essere degli infermieri ma risultò invano il suo tentativo di chiamare aiuto perché la visione di un lupo, riuscì a farle perdere il controllo del proprio corpo. Avanzava silenzioso verso di lei, il manto folto vibró ad ogni passo. La paura mise le radici nel suo stomaco e ogni cosa attorno si smorzò fino a scomparire.

Tutto tranne il lupo.

Solo quando distolse lo sguardo da quegli occhi color cerulei, Diana si accorse dell'uomo al suo fianco.

Tra le mani una siringa scintillò sotto la luce soffusa dell'abat-jour. L'ago le penetrò il collo prima ancora di avere la forza di gridare con tutto il fiato che avesse in gola.

Sotto la pelle un'ondata di calore si propagò in tutto il corpo. La mente scacciò ogni pensiero, pronta a lanciarsi di nuovo nel limbo.

«Devi venire con noi.»

Udì Diana poco prima di perdere i sensi ma una cosa le fu certa: non fu l'uomo a parlare.

𝑺𝑷𝑨𝒁𝑰𝑶 𝑨𝑼𝑻𝑹𝑰𝑪𝑬
Un vortice di cambiamenti si è abbattuto sulla nostra protagonista, e su di voi, nell'arco di qualche giorno. Ogni spiegazione arriverà a tempo debito ma sopraggiungeranno anche tanti altri dilemmi.
Rimanete sintonizzati. 🐺

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